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“Sono diversi anni che questo Rapporto sottolinea come la società italiana viva una crisi di spessore e di profondità e come gli italiani siano incapsulati in un Paese pieno di rancore e incerto nel programmare il futuro. Ogni spazio lasciato vuoto dalla dialettica politica è riempito dal risentimento di chi non vede riconosciuto l’impegno, il lavoro, la fatica dell’aver compiuto il proprio compito di resistenza e di adattamento alla crisi”. A fotografare la realtà sociale italiana, è il cinquantaduesimo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2018 del Censis, in cui la società ne esce delusa, arrabbiata e diffidente.

 

 

Per il miracoloso cambiamento post crisi non avvenuto e per l’assenza di prospettive di crescita. Cosicché, il futuro (da attendersi) è “una pura estrapolazione del traballante presente”. Nonostante abbia creduto all’ultimo residuo di quella cultura progettuale che, seppur artefice di tanti danni per ‘Italia, ne ha caratterizzato la sua storia, il rallentamento degli indicatori macroeconomici, l’impoverimento del vigore della crescita, il rinforzarsi di vecchie incertezze hanno volto al negativo il clima di fiducia degli italiani. La provvisorietà e la transizione che, in attesa della svolta si sono rafforzate, hanno condotto gli italiani all’antica consapevolezza che “solo le risoluzioni delle crisi inducono sviluppo”.

 

Il processo chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuale e collettiva, appunto. Prova ne sia che: il 63 per cento degli italiani è convinto che nessuno ne difende interessi e identità; solo il 45 per cento ritiene di avere le stesse opportunità degli altri di migliorare la propria vita; il 35 per cento è pessimista perché guarda l’orizzonte davanti a sé con paura e inquietudine e il 31 per cento è incerto sulla riuscita del suo futuro. E, però, per effetto della potenza iconoclasta dei media digitali, la metà della popolazione è convinta che oggi chiunque possa diventare famoso (e quindi migliorare la propria vita), ritenendo che “la popolarità sui social network sia un ingrediente fondamentale per poter essere una celebrità, come se si trattasse di talento o di competenze acquisite con lo studio”.

 

Come se non bastasse, quattro persone su dieci credono di poter trovare su internet le risposte a tutte le domande. Per, poi, ammettere, in una schizofrenica contraddizione, che la rete è piena di bufale, soprattutto in relazione alla politica tanto che per il 53 per cento degli italiani la comunicazione politica dei social network è dannosa o inutile. Anche fuori dalla rete, non riuscendo ad assurgere alla funzione di coesione identitaria che, nella storia, l’ha caratterizzata, finendo per essere percepita come autoreferenziale.

 

D'altronde basti sfogliarne l’agenda per notare che temi quali l’innovazione e la ricerca, volano e traino per gli altri paesi comunitari (europei), in Italia facciano fatica a imporsi nel dibattito pubblico e perciò a decollare: l’andamento della spesa pubblica destinata alla ricerca è in costante diminuzione. E non se la passa meglio, la spesa dedicata alla formazione sulla quale il Belpaese investe il 3,9 per cento del PIL contro la media europea del 4,7 per cento e la spesa per allievo risulta inferiore alla media citata di duecentotrentadollari nella scuola primaria fino a meno mille e duecentosessanta dollari nella scuola secondaria di secondo grado.

 

A risentirne, l’occupazione: dal 2007 al 2017, si è passati da duecentotrentasei giovani occupati ogni cento anziani a una sostanziale parità, mentre nel segmento più istruito, i duecentoquarantanove giovani laureati occupati ogni cento lavoratori anziani sono diventati appena centoquarantatre.

 

L’Italia non ha ancora recuperato i livelli occupazionali pre crisi: è il caso della Liguria, della Puglia, della Sicilia, del Veneto e della Campania. Nonostante la recente ripartenza, sono ancora lontane dai valori precrisi regioni importanti per l’economia nazionale come il Lazio, il Piemonte, la Liguria; in sofferenza ancora le regioni del Centro colpite dalla crisi economica prima e dal sisma poi. Meno sette punti per le Marche e meno dodici per l’Umbria.

 

“Ignorare il cambiamento sociale è stato l’errore più grave della nostra classe dirigente del trascorso decennio. L’errore attuale rischia di essere quello di dimenticare che lo sviluppo italiano continua ad essere diffuso, diseguale, pieno di singolarità umane e collettive. Se ci si appiattisce al loro presente si finisce per restare prigionieri di impulsi disarticolati e giocati solo sul presente. Meglio prendere coscienza di avere di fronte un ecosistema di attori e processi: governarlo non significa riformare i suoi più visibili comparti, ma ricercarne il senso condiviso”, si legge nel Rapporto.