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Se è noto che la crisi economica ha impresso una forte pressione sui bilanci pubblici degli Stati europei, meno evidente è che la suddetta crisi abbia anche fatto registrare una sensibile contrazione della percentuale di spesa dedicata all’istruzione. E in Italia maggiormente che altrove. Già non se la passava bene prima, quando il nostro Paese si trovava nella seconda metà della classifica europea per percentuale di spesa in istruzione rispetto al PIL.

 

 

Poi, dal 2011, si colloca proprio negli ultimi posti tanto che, nel 2016 - dati Eurostat, riportati nel dossier L’Italia spende meno della media europea in educazione, redatto da Openpolis - risultava quintultima tra i ventotto Stati dell’Unione europea, in cui la media è pari al 4,7 per cento del PIL, spendendo, invece, il 3,9 per cento, inferiore a quello della Francia (5,4 per cento) e del Regno Unito (4,7 per cento).

 

La spesa, dal 2009 al 2012, per l’istruzione a tutti i livelli ha subito una contrazione passando da settantadue miliardi annui a sessantacinque. E su questa cifra, complici alcune riforme nel sistema educativo, soprattutto la legge 169/2008, relativa a misure urgenti nell’istruzione, si è stabilizzata fino a oggi, caratterizzando l’Italia come il Paese che spende meno della media europea. In Europa, infatti, nei quindici anni tra il 2002 e il 2016, la percentuale di spesa pubblica rispetto al PIL è cresciuta di 2,7 punti, che l’Eurostat attribuisce all’aumento della spesa per la sanità e per la protezione sociale mentre la quota di quella destinata all’educazione ha subito un calo, fatta eccezione per la Germania. In questo contesto, l’Italia che già spendeva meno di un decimo delle risorse in istruzione a partire dal 2012 si è attestata attorno all’8 per cento.

 

E’ vero che la quota di spesa, da sola, non dice granchè sul funzionamento e sulla qualità del sistema educativo ma, a legger bene, è un indicatore di alcuni fattori. Primo, che la quota di spesa investita in un settore piuttosto che in un altro svela le priorità del decisore politico che, così orientandosi, rischia di fare scelte poco strategiche per il futuro. Sia perché inibisce le opportunità da offrire ai giovani sia perché non crea i presupposti per lo sviluppo del Paese.

 

Chissà se l’Atto di indirizzo firmato, il 20 dicembre scorso, dal ministro Marco Bussetti, possa imprimere, almeno nelle intenzioni, una svolta all’andamento scolastico. Dalla scuola alla ricerca, undici le priorità politiche per il 2019, predisposte nel piano strategico per “migliorare la qualità e l’efficacia del settore”.

 

Dal MIUR annunciano un piano pluriennale di investimenti per la messa in sicurezza degli istituti scolastici; prevedono misure per sostenere l’inclusione scolastica e contrastarne la dispersione; lavoreranno a un nuovo sistema di reclutamento che superi i meccanismi che hanno portato al precariato diffuso; puntano a consentire a un numero sempre più consistente di studenti di accedere alla formazione universitaria, ampliando la platea di studenti beneficiari della ‘NO TAX AREA’.

 

Poi sostengono di voler incrementare le risorse destinate alle università e agli enti di ricerca; promettono di predisporre azioni per ottenere il maggior numero di finanziamenti dal prossimo programma quadro in materia di ricerca e innovazione Horizon Europe 2021-2027; e pensano a come garantire una migliore programmazione dei fondi strutturali europei e del fondo di sviluppo e coesione nel settore istruzione fino al 2020. Buon 2019, allora.