Stampa

I sentimenti sono estremizzati. Le sofferenze sono quotidiane. Alcune sono madri. Sono Donne in transizione, raccontate nella ricerca de La società della regione, intervistate nelle carceri di Pisa e Sollicciano, che descrivono l’esperienza femminile della reclusione. Emerge la centralità del fattore emotivo: un’emotività a volte cieca, che spinge a conflittualità e aggressività: “Siccome in carcere non si sceglie con chi stare, c’è un problema di quotidiana gestione degli spazi e delle cose”, si legge.

 

Perché la cella, sebbene debba essere condivisa, è sempre vissuta come spazio di privacy (anche simbolicamente). E “la perdita di controllo sugli spazi e sulle relazioni (…) può appesantire i rapporti che possono, però, anche essere coltivati” perché le celle degli istituti presi in esame sono aperte per dodici ore al giorno.

 

Per sollevarsi dalla pervasività del carcere, le detenute fanno uno sforzo attivo per la cura dell’ambiente: oltre che per l’adattamento, prendersene cura diventa un fattore di protezione: “In media, le donne hanno risorse e questo permette che il tempo scorra abbastanza adeguatamente, fatta salva la privazione della libertà, il carcere è carcere ma sembrano più attrezzate a reggerlo”. Forse perché “in genere, le donne fanno gruppo e si oppongono a chi si isola”, rimandando all’importanza della dimensione collettiva e della cura dell’altra. Che “riempie di significato le relazioni”, diventando una risorsa fondamentale di resilienza al carcere.

 

La cura dell’altra, infatti, non si esaurisce nell’accudimento ma libera “competenze di natura intellettiva, potenziando le capacità di stare al mondo”. Per esempio, in luogo “della dinamica caotica del rapporto fra donne, compare l’immagine di donne che sanno elaborare il conflitto e gestirlo in modo da non diventare violente”. Mentre la cura del sé è, più che altro, “un aggancio alla continuità col fuori carcere”.

 

La loro più grande sofferenza deriva dal carattere totalizzante della dipendenza, non solo come conseguenza connaturata alla detenzione, ma anche per i meccanismi di “minorazione” che sono vissuti come mortificazione dell’identità. Perché non sono messe in grado di conoscere e comprendere e perciò di acquisire elementi per costruire la propria “mappa cognitiva”, conducendole a una “infantilizzazione”, incapaci di mettere all’opera le “abilità di vita” proprie dell’adulto. E “non sempre la domanda della donna detenuta è compresa nel suo reale e più profondo significato di ottenere una chiave di accesso agli imperscrutabili meccanismi che governano la propria esistenza”.

 

Ad elevare il livello di disagio in carcere, la lontananza dai figli, che una certa cultura punitiva e segregante presente in molte istituzioni aggrava: i rapporti materni sono spesso possibili (solo) per il percorso premiale che sembra suggerire l’idea che il mantenimento di questo legame non rientri nei diritti ma nelle concessioni subordinate alla dimostrazione della detenuta di essere una buona madre altrimenti sospetta di non meritare i figli.

 

E anche in carcere si fa sentire il peso delle impari opportunità: dalla carenza di percorsi formativi e ricreativi rivolte alle donne alle disparità economiche. Alla base, c’è da rimuovere una carenza strutturale di attenzione alle donne in carceri strutturalmente maschili. Insomma, “l’esperienza storica carceraria femminile acuisce la vista su alcuni aspetti che sono cruciali per progettare il cambiamento (…) e si rivela una fonte preziosa per pensare un carcere diverso e meno afflittivo: per donne, così come per uomini”.