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Nell'aprile del 2018, Cameron Herrin non vedeva l'ora di salire sulla macchina avuta in regalo per la maturità e misurarsi in una gara di velocità con l'amico John Barrineau. Le due auto erano lanciate sul Bayshore Boulevard di Miami. Avrebbero dovuto fermarsi al semaforo. Herrin invece aveva continuato a correre e non era riuscito ad evitare di travolgere Jessica Reisenger e la figlia Lilia, di un anno, che stava sul passeggino. Uccise entrambe.

 

Gli agenti della stradale lo avevano rincorso ed arrestato ma Herrin era uscito 24 ore dopo su cauzione in attesa del processo. Il dibattimento era iniziato il 21 aprile scorso e David Reinserger, piangendo, aveva ricordato moglie e figlia. Ma anche la famiglia di Herrin aveva pianto quando all'imputato erano stati inflitti 24 anni. Prima della condanna Herrin aveva ottenuto un bel po' di notorietà dal popolo della rete ed erano nati vari gruppi in sua difesa. I testimoni avevano visto Herrin proseguire la corsa a 160 km orari centrando in pieno mamma e bambina facendole volare in aria.

Per la legge si trattava di omicidio premeditato con l'aggravante della morte di un minore, che in Florida e in altri stati può costare fino a 70 anni  di carcere.

Il giudice era stato equo secondo l'opinione pubblica, ma il popolo di Tik Tok non era d'accordo. Così era stato realizzato un video con l'intenzione di mostrare il lato “buono” di Herrin e, soprattutto, la sua avvenenza. Sul video dei fans vengono messi in risalto gli occhi azzurro ghiaccio e una mascherina nera che conferisce all'imputato un'aria tenebrosa. Insomma Herrin sperava di giocarsela con l'aspetto fisico, un vecchio espediente usato anche da alcuni serial killers per apparire meno crudeli.

Il “lookismo” in effetti paga tanto che l'appoggio di migliaia di sostenitori a Herrin si basa unicamente sull'aspetto fisico; d'altra parte, se l'avvenenza paga chi può ne approfitta.

Qualcuno ha difficoltà a credere che la giustizia possa avere due pesi e due misure al di là del clamore dei social media, ma per crederci basta guardare al caso dell'insegnante Mary Levornau, accusata di aver abusato di un minore dal quale aveva addirittura avuto un figlio e condannata a sei anni di carcere. Per lo stesso reato - con numerose aggravanti per recidiva - il giudice ha stabilito che Debra Lefave, pur avendo adescato numerosi minori a scopo sessuale, “era troppo bella per finire in prigione”.

Magistrati e psicologi vennero ammaliati dalle grazie di Isabella Guzman e, pur ammettendo che la ragazza aveva inferto 79 coltellate alla madre uccidendola, le concessero periodi di libertà a sua discrezione, lasciandola uscire dalla struttura detentiva per malati di mente dove aveva trascorso sei anni. Nel caso di Guzman i social chiesero addirittura lo scagionamento completo.

Proprio in questi giorni ricorre il trentesimo anniversario della cattura di Jeffrey Dahmer, accusato di aver ucciso diciassette ragazzi. Le vittime avevano tra 14 e i 33 anni. I reati commessi da Herrin e persino il matricidio d Guzman non sono nemmeno lontanamente paragonabili agli orrori e agli scempi causati  di Dahmer, ma ci sono moltissime analogie nel  comportamento dei media e delle forze delle ordine, da sempre ambigui con eventi e protagonisti di natura criminale.

In particolare, all'epoca di Dahmer, la reporter del Milwakee Sentinel, che si era aggiudicata l'esclusiva sul processo, amava esaltare i dettagli più macabri e al tempo stesso insistere con l'origine delle vittime che definiva “borgatari, figli di prostitute, sfaccendati che succhiavano sangue ai contribuenti, ecc.”.

Anne Schwartz, come l'imputato, erano belli, giovani e biondi e “non occupavano case abusive come parecchi finti invalidi”. Nelle sue cronache Dahmer era “stato costretto a convivere con dei diseredati e il suo carattere ne aveva rusentito”. Povertà e criminalità, nella logica di Schwartz, erano interscambiabili.

Negli Stati Uniti è vietato diffondere informazioni sui reati commessi da minori ma per il Sentinel questa regola non contava nulla. Le vittime “erano giovani e non meritavano di finire in quel modo ma era stato il loro stile di vita a renderle facili prede”. Oppure : “Dahmer ha commesso cose atroci ma aveva già dei problemi che dovevano essere curati”. Il  rammarico più grande di Schawartz era però che Dahmer fosse finito in un quartiere abitato da soggetti che non avevano rispetto per sé stessi, neri che spesso si candidavano da soli alla rovina”. Quanto alle forze dell’ordine, non provarono mai solidarietà per le vittime né si sentirono oltraggiate dalla terribile morte di diciassette di ragazzi che non avevano ancora iniziato a vivere. Perché se così fosse stato, Glenda Cleveland  non sarebbe stata ignorata quando chiese disperatamente aiuto per fermare la mano assassina del suo vicino di casa, Jeffrey Dahmer. Trenta anni sono tanti ma molti hanno ricordato l'anniversario del suo arresto.

Dahmer non ha due milioni di followers solo perché nei primi anni ’90 non esisteva una Rete maniacale, ma le sue gesta rimangono epocali. Già il primo giorno riuscì a gabbare la gente barcollando come fosse fuori di testa. Il fatto che fosse bianco e di bell'aspetto fu sufficiente ad accendere un dibattito sulla sanità mentale come prevede la tradizione americana. Se il suo difensore fosse riuscito a convincere il pubblico che l'imputato era mezzo scemo, Dahmer se la sarebbe cavata con qualche anno o di manicomio. Ma era un'ipotesi risibile.

Gli omicidi erano stati talmente ben pianificati che nessun pazzo avrebbe potuto commetterli. I media hanno dipinto Dahmer come uno sfigato facendone comunque una star. I titoli insistevano con la storia del ragazzo sfigato anche quando si scoprì che Dahmer era dedito al cannabalismo. La vera ragione per “umanizzarlo” era far apparire le vittime inferiori. Ma chi se ne fregava se erano ballerini o lavapiatti o se erano venuti da Chicago per farsi ammazzare a Milwakee.

A richiamare i lettori erano più i particolari macabri, se Dahmer mangiava fegati crudi o cotti, e trovavano intrigante il contrasto tra l'aria del bravo ragazzo americano e il cannibale. Tutto il resto era secondario. Il trucco per far sembrare Dahmer un bravo ragazzo americano uscito di cervello consisteva nel mettere in cattiva luce le vittime. In questo Anne Schwartz fu una vera maestra. Era veramente impagabile nel gettare fango sulle vittime.

Shwartzie (tesoruccio) com  la chiamavano all'epoca, non aveva mai nesso piede in casa di Dahmer e neppure sapeva della sua esistenza. E' brutto contraddire una reporter giovane e appassionata, ma è giusto si sappia che non fu lei a denunciare quello che avveniva in una casa del complesso noto come Oxford Adpartments e precisamente nell'unità abitativa N.213 .Ci vuole un gran coraggio, soprattutto in un mondo di biondi e belli, per un'afro americana grassa e dall'aspetto anonimo correre il rischio di essere presa per visionaria.

Eppure è proprio quello che accadde. Il 27 maggio 1991 Cleveland vide un ragazzo nudo cercare di fuggire da casa Dahmer e chiamò la polizia, sicura si trattasse di un minore. Alla polizia che accorse andò bene la versione di Dahmer; c'era stata una lite domestica e il  ragazzo era più che maggiorenne e Cleveland fu fatto passare per un'intrigante ficcanaso. Confuso dall'alcol ingerito, il ragazzo rientrò in casa di Dahmer, che durante la notte lo uccise e fece a pezzi il suo corpo. Esasperata, Cleveland continuò ad insistere che altri ragazzi potevano essere in pericolo ma la polizia rimase indifferente ai suoi ammonimenti.

Non fu presa sul serio anche se tentò innumerevoli volte di convincere la polizia che nell'appartamento attiguo al suo avvenivano cose orrende. Ma veniva puntualmente ignorata, anche dall'FBI. Se gli agenti le avessero creduto cinque ragazzi sarebbero ancora vivi.

Oliver Lacy e Jeremah Weinberger Dahmer li aveva incontrati a Chicago ma uccisi e smembrati a Milwakee. Parti del corpo di Weinberger furono trovate nel freezer dove Dahmer custodiva spesso le sue vittime. Due ragazzi non furono mai ritrovati, probabilmente i loro cadaveri erano stati occultati altrove. Tracy Edwards fu l'unico che riuscì a fuggire. Diede un pugno in faccia a Dahmer, inforcò la porta di casa a corse via veloce come il vento. Lungo la via trovò una pattuglia della polizia e guidò gli agenti verso la casa di Dahmer.

Negli armadi, compresi quelli del bagno, furono trovate centinaia di foto di ragazzi e dei loro corpi mutilati. In casa di Dahmer c'erano anche enormi bidoni di candeggina e ammoniaca per tamponare l'odore dei macabri resti. Il padre di Jeremiah cercò di dimostrare che se Clevelad fosse stata creduta suo figlio e altri ragazzi si sarebbero salvati. Una mossa inutile dal momento che la Corte Suprema respinse la mozione.

Il 27 luglio 1991 per Glenda Cleveland la missione era finita. Finalmente quelli che si erano burlati di lei furono costretti a crederle ma era troppo tardi per salvare i cinque ragazzi.

Entra qui in ballo il nome di Anne Schawrtz, che subito pubblica un libro assai generoso nei confronti di Dahmer e scala le classifica delle vendite. Le cose al mondo funzionano così. Le narrative sui serial killers sono più meno sempre le stesse. C'è un individuo che un bel giorno non si sveglia con il piede giusto e comincia ad uccidere a raffica. Ormai a Glenda Cleveland la cosa non interessava più, voleva rimanere nell'ombra. Non volle soldi da nessuno. Quando si scoprì che aveva avuto un ruolo da protagonista nella cattura di un serial killer cercò di farsi vedere il meno possibile. Era rimasta in contatto con la madre di uno dei ragazzi che aveva inutilmente cercato di salvare. La donna era fuggita dal Laos credendo di trovare una vita migliore in America ma lì il suo ultimogenito era stato assassinato  e parzialmente divorato da Dahmer.

Il giudice condannò Dahmer a 15 ergastoli, mandandolo nel frattempo a pulire i bagni nel carcere di Portage, in Wisconsin. Nel 1992 gli americani rimasero incollati davanti ai teleschermi per assistere al processo. “Ho simpatia per lui” disse qualcuno, che gli mandò circa dodici mila dollari per provarglielo. Dahmer riceveva molte lettere sopratutto dall'estero.

Ma nel novembre del 1994 qualcuno decise di vendicare i diciassette ragazzi afro americani uccisi da un bianco che si era cibato della loro carne. Fu un lavoro facile, almeno secondo l'autore del gesto. Christopher Scarver non amava le celebrità, puliva i bagni anche lui assieme a Dahmer. Ci fu una lotta durata circa un'ora, di guardie neppure un'ombra. Dahmer fu trovato quando era ormai troppo tardi. Per la sua morte Scarfer, che già doveva scontare l'ergastolo, fu condannato ad un secondo ergastolo. “Non ho più mangiato certi cibi” aveva detto ai compagni di prigione.

A 56 anni, alla vigilia di Natale del 2011, Glenda Cleveland morì d'infarto nella casa dove aveva sempre vissuto. Era rimasta sempre nell'ombra, a pochi metri da dove “Il Cannibale” smembrava le sue vittime. Ma quella era la sua casa e lì  aveva cresciuto le sue due figlie. Il destino a volte ricama strani arabeschi con la vita delle persone. Tutto sommato Glenda è l'unico personaggio vincente in questa strana storia di sangue, ambizione scellerata di una giornalista poi arrivata a ricoprire un ruolo importante nell'amministrazione penale di Milwakee. Ma una anonima casalinga coraggiosa grassa e nera è l'unica che abbia pensato a salvare delle vite. Forse ci vorrebbero altre persone come lei per migliorare il mondo.