Assange, le “non garanzie” USA

di Michele Paris

Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per...
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Israele e l’equazione iraniana

di Michele Paris

L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove. La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle...
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di Carlo Musilli

Il flusso di manodopera fra Washington e Wall Street inverte la rotta e preme sull'acceleratore. Il copione vorrebbe che le super banche quotate a New York, le "Too big to fail", piazzino i propri uomini in posizioni di governo per imbonire e sedurre i legislatori degli Stati Uniti (tipico il caso di Hank Paulson, ex Goldman Sachs, poi segretario al Tesoro durante l'ultima crisi). Ma negli ultimi tempi l'esodo ha cambiato direzione: ora sono gli istituti "troppo grandi per fallire" ad assumere ex politici.

Di per sé nemmeno questa è una novità assoluta, lo fanno da una vita, ma di recente la pratica è cresciuta moltissimo. Lo rivela un articolo di Politico.com, celebre testata d'inchiesta americana.

Giganti come Citigroup e JP Morgan stanno reclutando ex funzionari politici e tecnici provenienti dalle autorità di controllo, mentre Morgan Stanley e Goldman Sachs si apprestano far sedere sulle poltrone più alte delle loro piramidi dirigenziali uomini che hanno ricoperto incarichi di primo piano al Tesoro e alla Casa Bianca.

I diretti interessati non faticano a trovare milioni di ottime ragioni per passare dall'altra parte della barricata. In termini di stipendi, quello che può offrire la pubblica amministrazione non regge nemmeno il confronto con la manna che sgorga dai forzieri di Wall Street. L'aspetto più interessante riguarda però il movente delle banche.

L'obiettivo degli istituti è disinnescare sul nascere ogni possibile riforma della finanza che rischi di compromettere i loro margini di profitto. Il timore numero uno è che il Congresso riesca finalmente a operare il cambiamento di cui il sistema finanziario americano avrebbe più bisogno, ovvero il ridimensionamento delle "Too big to fail", evidentemente troppo grandi non solo per fallire, ma anche per esistere.

Una priorità sottolineata perfino dal governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ha definito le super banche "una delle maggiori cause della crisi finanziaria, un problema reale, tutt’altro che risolto". Per il capo dell'istituto centrale americano, "finché non affronteremo la questione, non potremo dire di aver combattuto la crisi con successo". Parole con cui di fatto Bernanke ha ammesso il completo fallimento da questo punto di vista della Dodd-Frank, la riforma finanziaria varata nel 2010 dall'amministrazione Obama.

Ma al di là delle affermazioni di principio - ripetute invano da anni - a preoccupare le grandi banche americane è soprattutto la proposta di legge presentata il mese scorso dal parlamentare democratico Sherrod Brown e dal repubblicano David Vitter. Scopo del provvedimento è imporre agli istituti con asset superiori ai 500 miliardi di dollari di avere riserve di capitale intorno al 15%. Una quota che raddoppierebbe la soglia attuale, superando di gran lunga anche i limiti in via di definizione per Basilea III. Se la misura fosse approvata, le "big banks" sarebbero costrette a ridimensionarsi, se non addirittura a dividersi.

La risposta di Wall Street è arrivata per voce di uno dei suoi sicari, l'agenzia di rating Standard & Poor's. Come al solito, ogni possibile cambiamento dello status quo viene letto in chiave apocalittica dagli analisti di S&P, che prevedono ulteriori strette del credito e terremoti finanziari nel caso in cui la riforma fosse approvata. Anche perché “se la grandi banche venissero spezzate - scrivono gli esperti di Standard & Poor's - non le potremmo classificare come banche di alta importanza sistemica”. E quindi, probabilmente, una volta privati del loro oligopolio questi istituti subirebbero downgrade a pioggia.

E' bene ricordare, tuttavia, che S&P è stata insieme a Moody's e Fitch una delle principali artefici della crisi. Le agenzie di rating assegnavano il giudizio di massima affidabilità a titoli che sapevano essere carta straccia, e lo facevano perché incassavano denaro proprio dalle banche. Mai conflitto d'interessi fu più lampante: le tre agenzie svolgevano un servizio per chi comprava i titoli, ma venivano pagate da chi li emetteva. La loro credibilità è dunque perlopiù una questione di fede irrazionale.

Insomma, come sempre è avvenuto, gli istituti elefantiaci quotati a New York cercano ogni mezzo per fare pressione sulla politica. Stavolta il pericolo è maggiore rispetto al passato e per questo si tutelano aprendo definitivamente le porte a chi fino a ieri hanno cercato di corrompere. E' una vecchia massima: per battere il nemico devi conoscerlo. O assumerlo.

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