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di Carlo Musilli

Il 2016 delle Borse è iniziato nel segno della Cina e del petrolio. Dopo un avvio di settimana da incubo, ieri i mercati europei hanno limitato i danni nel finale: Piazza Affari, che per quasi tutta la giornata aveva perso più del 2%, è riuscita poi a dimezzare il rosso, chiudendo in calo dell’1,14%. E’ andata peggio a Francoforte (-2,29%), Londra (-2,05%) e Parigi (-1,7%), ma anche in questo caso si tratta di cali inferiori a quelli registrati per gran parte della seduta.

Il salvagente è arrivato dalle autorità cinesi, che hanno deciso di sospendere da venerdì sera il blocco automatico delle contrattazioni in caso di rialzi o ribassi eccessivi. Il meccanismo, entrato in funzione proprio questa settimana, avrebbe dovuto ridurre la volatilità, ma ha provocato l’effetto opposto.

Lunedì gli scambi sono stati interrotti alle 13 e 28 locali perché la Borsa di Shanghai (dopo alcuni dati deludenti relativi alla manifattura) è arrivata a perdere più del 7%. Il tonfo ha portato con sé tutta l’Europa, che ha festeggiato il nuovo anno con un classico black monday (Francoforte -4,2%, Milano -3,2%, Parigi -2,4% e Londra -2,39%).

Il blocco per eccesso di ribasso della Borsa di Shanghai è scattato nuovamente giovedì, ad appena 14 minuti dall’avvio della seduta. Stavolta a preoccupare gli investitori è stata la nuova svalutazione dello yuan da parte di Pechino, una mossa che agli occhi dei mercati ha confermato un sospetto diffuso ormai da tempo, ovvero che il rallentamento dell’economia cinese sia in realtà più grave di quanto segnalato dai già fiacchi dati ufficiali.

L’altra anomalia che aggrava il clima di pessimismo riguarda il prezzo del petrolio, sempre più basso. Solo due anni fa un barile di greggio costava più di 100 dollari, mentre oggi siamo sotto i 35 e la tendenza al ribasso continua. Il crollo prolungato si spiega con il combinato composto di due fattori: da una parte il rallentamento della congiuntura (ieri la World Bank ha tagliato ancora le previsioni sulla crescita del Pil mondiale nel 2016), che fa prevedere un ulteriore indebolimento della domanda globale; dall’altra la politica dell’Opec, decisa a non tagliare la produzione malgrado il calo delle richieste.

A guidare il cartello dei Paesi produttori di petrolio è l’Arabia Saudita, che ha scelto di ridurre gli introiti legati al greggio (danneggiando, e non poco, i propri conti pubblici) pur di mantenere i prezzi a livelli minimi. Questa strategia ha il chiaro obiettivo di conquistare quote di mercato a danno dei concorrenti, fra cui le compagnie statunitensi di shale oil, che ricavano l’oro nero in patria con la tecnica della fratturazione della roccia. Le quotazioni internazionali a questi livelli, infatti, rendono economicamente insostenibile la produzione tramite fracking (come quella di energia da fonti rinnovabili). 

In questo modo, i sauditi difendono il proprio ruolo di dominus sul mercato globale del greggio - l’Arabia è il primo produttore al mondo con 10,15 milioni di barili al giorno - e al tempo stesso conservano un margine di controllo sul più importante dei loro alleati, gli Stati Uniti. Finché Washington dipenderà dal petrolio saudita, è prevedibile che non farà mancare supporto politico a Riyadh.

Negli ultimi giorni, però, questo scenario è diventato più incerto per il riaccendersi delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran. L’escalation è iniziata il 2 gennaio, quando il regime sunnita ha giustiziato (insieme ad altre 46 persone) il leader sciita Nimr al-Nimr. In seguito sono arrivati l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran, la rottura dei rapporti diplomatici fra i due Pasi e varie altre manifestazioni di ostilità, di reazione in reazione. 

Riyadh ha innescato tutto questo in risposta all’intesa dello scorso luglio sul nucleare iraniano. L’accordo è inviso ai sauditi perché prevede la graduale cancellazione delle sanzioni contro Teheran, che quindi con il tempo tornerà sulla scena internazionale come interlocutore politico e come produttore di petrolio, minacciando la leadership araba sul mercato del greggio e ostacolando il progetto di espansione politica e religiosa del regime sunnita nella zona del Golfo e del Medio Oriente. In un contesto simile, c’è il rischio che la guerra sul prezzo del petrolio sfugga di mano agli stessi sauditi.