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di Carlo Musilli

La Brexit ancora non è avvenuta, ma ha già fatto danni. Negli ultimi 12 mesi, da quando cioè i britannici hanno votato in favore dell’uscita dall’Unione europea, le condizioni generali del Regno Unito sono peggiorate. E questo nonostante le trattative per il divorzio siano iniziate ufficialmente solo pochi giorni fa. Siamo ancora in alto mare: non è chiaro nemmeno se Londra vada verso una soluzione “soft” o “hard”.

Nel primo caso le sarebbe permesso di rimanere nel mercato economico europeo, ma dovrebbe cedere alle richieste dell’Ue sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Nel secondo, invece, i rapporti commerciali anglo-europei sarebbero regolati dagli standard minimi del Wto. Si tratterebbe di una catastrofe economica insensata e colpevole, che renderebbe la Gran Bretagna molto più povera e peserebbe anche sul resto d’Europa (secondo Deloitte, questo scenario metterebbe a rischio 18mila posti di lavoro solo nell’industria automobilistica tedesca).

Eppure, già adesso la situazione dà segnali negativi. L’edizione europea di Politico ha selezionato alcuni dati che sintetizzano i problemi causati al Regno Unito dal voto dello scorso 23 giugno.

Innanzitutto, il versante politico. La premier Theresa May, che dopo il referendum aveva preso il posto del dimissionario David Cameron, ha indetto quest’anno elezioni anticipate per rafforzare la propria maggioranza e presentarsi all’avvio dei negoziati con Bruxelles forte di un consenso elettorale straripante. Le è andata malissimo: i Conservatori sono rimasti il primo partito del Paese, ma hanno perso il controllo del Parlamento, passando da 331 a 318 seggi, con la soglia per la maggioranza a quota 326. Ora May deve trattare con gli unionisti irlandesi per rimanere in sella, ma è difficile immaginare che possa essere lei il capo del governo per i prossimi 5 anni.

Secondo punto, la crescita economica. Alcuni dati macro pubblicati nei mesi immediatamente successivi al referendum avevano illuso i britannici (e non solo) che la Brexit non avrebbe influito negativamente sull’andamento del Pil. In realtà, era solo troppo presto per fare queste valutazioni. A febbraio di quest’anno la Germania ha superato la Gran Bretagna come Paese del G7 con il tasso di crescita più elevato e a maggio l’UK ha ottenuto lo stesso risultato dell’Italia, che è in coda alla classifica. Nei primi tre mesi del 2017 il Pil britannico è cresciuto dello 0,3% rispetto al periodo ottobre-dicembre 2016, contro il +0,4% di Francia e Grecia e il + 0,6% della media dell’Eurozona.

Sul fronte valutario, nell’ultimo anno la sterlina si è deprezzata di circa il 15% nei confronti del dollaro (e lo scorso 7 ottobre ha toccato il livello più basso dal 1985, per i timori di una hard Brexit). Questo ha portato a un forte rialzo dell’inflazione, passata dal +0,5% del giugno 2016 al +2,9% del mese scorso, il livello più alto degli ultimi quattro anni. Certo, una moneta più debole è un vantaggio per l’export e per chi è indebitato, ma danneggia le importazioni e si fa sentire sui prezzi al consumo, come i britannici hanno già constatato facendo la spesa.

Per quanto riguarda l’immigrazione, nel trimestre che ha preceduto il referendum il numero di cittadini comunitari che avevano deciso di trasferirsi nel Regno Unito era ai massimi storici. Nei mesi successivi i nuovi immigrati sono calati drasticamente, soprattutto quelli provenienti dall’Europa dell’Est. Sono invece aumentati del 24% i cittadini europei che hanno scelto di abbandonare il Regno Unito. Chissà se questo basterà per dare soddisfazione ai fan della Brexit.