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di Carlo Musilli

Alcuni lo venerano come il salvatore, per altri è solo un delinquente sanguinario. L'imam Moqtada al-Sadr, leader radicale sciita, è tornato in Iraq la settimana scorsa dopo tre anni di esilio volontario in Iran. Per celebrare l'evento, migliaia di seguaci da ogni angolo del paese si sono ritrovati a Najaf, una delle città più sacre dell'Islam, a 160 chilometri da Bagdad.

Sabato scorso, una folla si è ammassata sul selciato davanti alla sua abitazione, dove l'imam ha tenuto il primo discorso pubblico dopo il rientro in patria. All'inizio sembrava che volesse riprendere esattamente da dove aveva lasciato: "Siamo ancora combattenti e diciamo no agli Stati Uniti". Parole dure non solo per gli americani, ma anche per israeliani e inglesi, "nostri comuni nemici". "Resisteremo sempre all'occupazione - ha continuato il leader sciita - militarmente e con ogni altro mezzo".

Fin qui, tutto da copione. Poi, finalmente, qualcosa di nuovo. Al-Sadr ha chiesto al suo popolo di concedere una possibilità al nuovo governo di Nouri al-Maliki, insediato lo scorso 21 dicembre dopo 9 mesi di trattative. "Se serve il popolo e la sua sicurezza - ha detto l'imam riferendosi al primo ministro - noi siamo con lui. Se non lo facesse ci sono vari modi per sistemare le cose, ma sono solo politici".

Non stupisce l'appoggio all'esecutivo, considerando che alle elezioni politiche del marzo scorso il Movimento Sadrista guidato dall'imam ha piazzato 39 uomini in parlamento e altri 7 sulla poltrona da ministro. Piuttosto, è significativo il riferimento ai modi "solo politici". Al-Sadr ha perfino affermato che l'uso della forza è prerogativa degli "uomini d'armi", riconoscendo implicitamente l'autorità dell'esercito e della polizia iracheni.

E' evidente la volontà di lanciare un segnale: il Movimento Sadrista non è più quello di un tempo. Può stare tranquillo chi temeva di veder ricomparire l'Esercito del Mehdi, la milizia sciita creata otto anni fa da Al-Sadr per combattere contro le truppe americane. Lo stesso Esercito è stato accusato di aver compiuto diverse stragi durante il conflitto civile fra sciiti e sunniti seguito alla caduta di Saddam. Ma "il nostro braccio non toccherà nessun iracheno - ha rassicurato ancora l'imam - contrasteremo solo l'occupazione, con ogni mezzo di resistenza. Noi siamo un popolo. E non siamo d'accordo con i gruppi responsabili degli eccidi".

Eppure, fino a qualche anno fa, la storia era diversa. Figlio di Mohammed Sadeq al-Sadr, un ayatollah venerato in tutto il mondo islamico, Moqtada al-Sadr era considerato una delle figure più estremiste e spietate dell'Iraq. Alla guida di un grande movimento populista emerso dopo l'invasione delle truppe internazionali, è riuscito meglio di altri leader a presentarsi contemporaneamente come punto di riferimento religioso e politico.

Ancora oggi gode del seguito di un'ampia base e sa benissimo come infiammare la piazza. Rimane antiamericano, fondamentalista e nazionalista. Ma non più rivoluzionario come prima: ora sa di essere l'ago della bilancia. Sa di essere indispensabile  per tenere in piedi il governo, per legarlo al territorio e alla popolazione sciita.

I sadristi si presentano adesso come un movimento più maturo e disciplinato. Si rendono conto finalmente di quanto convenga appoggiare il nuovo governo Al-Maliki, lo stesso che fino a non molto tempo fa liquidavano come un "giocattolo" in mano agli americani. Nei prossimi mesi la scommessa è di fare il salto definitivo, trasformando quello che ancora oggi ha molti tratti del movimento di strada in un partito politico vero e proprio.

Nel frattempo, dagli Stati Uniti arrivano segnali tiepidi. James Jeffrey, ambasciatore americano a in Iraq, ha detto di non aver ancora visto alcuna prova che i sadristi abbiano rinunciato all'idea di usare la forza contro i loro oppositori. Secondo fonti militari citate dalla stampa americana, inoltre, durante i mesi di negoziati seguiti alle elezioni presidenziali del marzo 2010, i diplomatici Usa erano molto preoccupati dalla possibilità che il Movimento di Al-Sadr svolgesse un ruolo nel nuovo governo.

Di fronte agli insulti e alle ripetute minacce ricevute dal leader sciita, in ogni caso, sembra che gli americani preferiscano aspettare e guardare. Più si alzano i toni a Najaf, più si abbassano a Washington. Anche questo è un bel cambiamento rispetto al passato. Se nel 2004 un portavoce americano a Bagdad aveva descritto Al-Sadr come "un teppista da quattro soldi", pochi giorni fa Philip Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato, si è messo il silenziatore alla bocca e l’ha definito, con indimenticabile eufemismo, "il leader di un partito politico iracheno che alle elezioni ha ottenuto un certo numero di seggi".