Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq entro la fine dell’anno dovrebbe preannunciare, secondo le parole del presidente Obama, un disimpegno di Washington in Medio Oriente e un futuro di pace nella regione. Gli obiettivi strategici degli USA, tuttavia, non prevedono per il futuro nessun abbandono di quest’area cruciale del globo né, tantomeno, una riduzione del rischio di nuovi e sanguinosi conflitti.

L’annuncio di Barack Obama del completo ritiro dei militari americani dal paese mediorientale invaso nel 2003 entro la fine dell’anno è giunta il 21 ottobre scorso ed è stata propagandata come il mantenimento della promessa elettorale di porre fine ad una guerra profondamente impopolare. La retorica del presidente nasconde però a malapena una realtà ben diversa.

Innanzitutto, la fine dell’occupazione dell’Iraq era già stata negoziata nel 2008 da George W. Bush con il governo di Baghdad e, soprattutto, l’amministrazione democratica ha cercato disperatamente di convincere il premier Maliki a mantenere nel paese oltre il 31 dicembre prossimo un contingente americano fino a venti mila soldati, sotto forma di addestratori e consiglieri militari. I tentativi americani sono cessati solo quando è stata accertata l’impossibilità di raccogliere il consenso necessario nel Parlamento iracheno per una decisione che avrebbe perpetuato la presenza di un contingente militare che in quasi nove anni di occupazione ha causato oltre un milione di morti e la totale devastazione del paese.

Nonostante il fallimento degli Stati Uniti nel modificare il cosiddetto “Status of Forces Agreement” (SOFA) con Baghdad, Washington non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Iraq. A più di cinque mila contractor privati (mercenari) che invaderanno il paese sotto il controllo del Dipartimento di Stato si devono aggiungere infatti circa 16 mila civili alle dipendenze del governo americano, molti dei quali impiegati nell’ambasciata USA della capitale, la più grande del pianeta.

L’assistenza americana alle forze armate locali sarà estesa poi con ogni probabilità anche allo spazio aereo, come ha fatto intuire il capo di stato maggiore iracheno, generale Babaker Zebari, secondo il quale il suo paese non sarà in grado di difenderlo fino al 2020 o 2024 “senza l’aiuto dei partner internazionali”.

In ogni caso, il relativo disimpegno dall’Iraq sarà bilanciato da una rinnovata presenza militare americana in altri paesi alleati del Golfo Persico, come ha messo in luce un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times. Citando diplomatici e alti ufficiali militari, il quotidiano newyorchese rivela come l’amministrazione Obama sta appunto valutando la possibilità di inviare nuove truppe in paesi come il Kuwait e navi da guerra nelle acque internazionali della regione. Il tutto con lo scopo primario di aumentare le pressioni sull’Iran e stabilire basi d’appoggio per un’eventuale aggressione militare.

Contro Teheran, d’altra parte, le provocazioni di Washington sono nuovamente aumentate nell’ultimo periodo, a cominciare dall’assurda accusa di aver complottato l’assassinio dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti ingaggiando sicari legati ai cartelli messicani del narcotraffico. Quest’ultima accusa ha permesso agli USA e ai loro alleati di alzare i toni nei confronti della Repubblica Islamica e di cercare di raccogliere consensi per imporre ulteriori sanzioni, a cominciare da un embargo economico che dovrebbe colpire la Banca Centrale iraniana, iniziativa che equivarrebbe ad un atto di guerra.

L’obiettivo Iran è nel mirino anche tramite le pressioni in corso sulla Siria, principale alleato di Teheran. Un eventuale intervento occidentale per risolvere la crisi siriana trascinerebbe infatti l’Iran in un conflitto regionale dalle conseguenze disastrose. A ricordarlo è stato lo stesso presidente Bashar al-Assad in una rarissima intervista rilasciata al britannico Daily Telegraph e pubblicata domenica scorsa. Per il presidente, un’azione della NATO o di altri paesi occidentali in Siria provocherebbe un vero e proprio terremoto nella regione e scatenerebbe “decine di Afghanistan”.

Per il New York Times, come già anticipato, l’amministrazione Obama, “con un occhio all’Iran”, sta cercando di espandere i legami militari esistenti con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) - Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar - promuovendo una nuova struttura difensiva per il Golfo Persico che dovrebbe integrare pattuglie aeree e navali, ma anche la difesa missilistica. In altre parole, Washington intende stabilire un’alleanza militare più stretta con le dittature e i regimi reazionari del Golfo in funzione anti-iraniana e per reprimere ulteriormente qualsiasi rigurgito rivoluzionario nel mondo arabo che minacci gli equilibri esistenti.

Alcuni dei negoziati per una più intensa partnership militare sarebbero già in stato avanzato, secondo il New York Times, come quello con il Kuwait. Nell’emirato è stazionato almeno un battaglione americano fin dalla prima Guerra del Golfo, nel 1991, ed è localizzato anche un “enorme arsenale” di armamenti a disposizione delle truppe americane aggiuntive che dall’Iraq si sposteranno oltre il confine meridionale.

La strategia americana in Medio Oriente è stata esposta in maniera chiara dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, nel corso del suo recente tour asiatico. Durante una sosta in Tajikistan, la ex first lady ha avvertito che gli USA continueranno ad avere “una robusta e continua presenza nella regione, a riprova del nostro impegno in Iraq e per il futuro della regione stessa, che dovrebbe essere libera da interferenze esterne e continuare il proprio percorso verso la democrazia”. Come possano essere raggiunte per i paesi mediorientali la libertà da interferenze esterne, a fronte di una prolungata presenza americana, e la democrazia, con gli USA che sostengono apertamente dittature come Arabia Saudita e Bahrain, per la Clinton il problema non si pone.

La ribadita difesa degli interessi statunitensi nella regione riflette anche la necessità da parte dell’amministrazione Obama in tempi di campagna elettorale di rispondere alle critiche sollevate in patria da molti esponenti del Partito Repubblicano per aver abbandonato l’Iraq senza aver raggiunto gli obiettivi strategici che avevano portato alla guerra.

Con l’intensificarsi dello scontro sociale negli Stati Uniti, infine, l’innalzamento delle tensioni in Medio Oriente e la prospettiva di nuovi conflitti rappresenta anche un metodo consolidato per distogliere l’attenzione dai problemi interni e unire il paese attorno all’ennesima impresa “umanitaria” o “democratica” d’oltreoceano.

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