USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Arturo Bandini

Le tensioni tra Siria e Turchia hanno fatto registrare una pericolosa impennata negli ultimi due giorni in seguito al lancio di un missile dal territorio siriano, approdato in una zona residenziale della città turca di Akçakale dove ha fatto cinque vittime civili. Nonostante le scuse di Damasco e gli appelli alla calma, il governo di Ankara del premier islamista Recep Tayyip Erdogan ha subito sfruttato l’episodio per colpire con l’artiglieria pesante obiettivi militari oltreconfine, facendo così aumentare sempre più le probabilità di un intervento esterno vero e proprio per cercare di risolvere una crisi entrata ormai nel 19esimo mese.

Dopo i fatti di mercoledì, l’esercito turco ha subito iniziato a bombardare bersagli nella città siriana di Idlib, già teatro di alcuni dei più cruenti scontri degli ultimi mesi, per poi riprendere le operazioni nella mattinata di giovedì, uccidendo alcuni soldati dell’esercito regolare proprio mentre al Parlamento di Ankara era in discussione una mozione per autorizzare l’ulteriore uso della forza in caso di nuove “provocazioni” da parte di Damasco.

La proposta avanzata dal partito di governo (AKP) è stata alla fine approvata a larga maggioranza e tra le polemiche dei partiti di opposizione. Un deputato del Partito Repubblicano Popolare (CHP) ha criticato l’esecutivo per avere chiesto il passaggio di un provvedimento che “potrebbe scatenare una guerra mondiale”.

La ritorsione delle ore precedenti era stata resa possibile invece dalle nuove regole di ingaggio approvate da Ankara dopo l’abbattimento di un aereo militare turco lo scorso mese di giugno da parte della contraerea siriana. In quell’occasione, Damasco aveva sostenuto che il velivolo era entrato nel proprio spazio aereo, mentre secondo la versione turca il mezzo si era mantenuto nello spazio internazionale.

I consiglieri del premier Erdogan si sono comunque affrettati a precisare che la Turchia, almeno per il momento, non intende dichiarare guerra alla Siria e che la mozione appena approvata non comporta automaticamente l’inizio di un conflitto, peraltro estremamente impopolare in patria. Il governo dell’AKP dispone ora però degli strumenti legali per entrare in guerra appena se ne presenterà l’occasione, sfruttando cioè come pretesto qualsiasi incidente che avrà luogo lungo un confine sterminato e caratterizzato dal caos e da scontri quotidiani. Nel frattempo, le agenzie di stampa turche hanno testimoniato del movimento di truppe e mezzi pesanti verso il confine siriano.

Il rischio che in un aperto conflitto vengano coinvolte anche le potenze occidentali è molto elevato, come dimostra la richiesta fatta dalla Turchia mercoledì sera alla NATO per convocare una riunione di emergenza secondo l’articolo IV della carta dell’Alleanza che prevede appunto consultazioni tra i paesi membri quando viene minacciata la sicurezza o l’integrità territoriale di uno di essi. Da Bruxelles, il Patto Atlantico ha alla fine emesso un comunicato di condanna verso la Siria, esprimendo solidarietà con Ankara.

Alla luce della confusione che regna nelle zone di confine, dove operano numerosi gruppi “ribelli” anti-Assad, non è del tutto chiara la provenienza del missile caduto mercoledì in territorio turco, tanto che non sarebbe del tutto da escludere un’azione ad opera proprio di questi ultimi per spingere Ankara ad intervenire in Siria.

In ogni caso, da Damasco il ministro dell’Informazione, Omran Zoabi, ha fatto le condoglianze ai famigliari delle vittime ed ha annunciato l’apertura di un’indagine per accertare la provenienza del missile. L’agenzia di stampa AFP, inoltre, nella giornata di giovedì ha citato il vice-premier turco, Besir Atalay, secondo il quale il governo siriano avrebbe ammesso la propria responsabilità, scusandosi per l’accaduto.

Proprio nei giorni precedenti, tuttavia, il vice-ministro degli Esteri russo, Gennady Gatilov, aveva rivelato di avere fatto appello ai paesi della NATO ad evitare di utilizzare la situazione caotica al confine turco-siriano per giustificare un intervento nel paese. Inoltre, il diplomatico di Mosca aveva avvertito che i “ribelli” avrebbero potuto prendere iniziative provocatorie proprio per cercare di trascinare la Turchia nel conflitto.

Nel corso di una visita in Kazakistan, il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, si è unita al coro di condanne verso Damasco per le cinque vittime civili di Akçakale, anche se il governo turco non sembra esattamente una vittima della violenza scatenata dall’aggravarsi della crisi siriana. Ankara ospita infatti sul proprio territorio i vertici del cosiddetto Libero Esercito della Siria e, assieme agli Stati Uniti e ai loro alleati, fornisce appoggio militare e finanziario ai guerriglieri che conducono operazioni oltre confine per cercare di rovesciare Assad e installare un regime meglio disposto verso l’Occidente. Da tempo, poi, la Turchia insiste per creare corridoi “umanitari” in Siria, un altro pretesto cioè per gettare le basi di un intervento esterno nel martoriato paese mediorientale.

Il nuovo scontro tra Siria e Turchia è giunto lo stesso giorno di un attentato suicida ad Aleppo che ha fatto quasi 50 morti, in buona parte civili, e più di 100 feriti. L’esplosione è stata rivendicata dal Fronte Al-Nusra, uno dei gruppi jihadisti legati ad Al-Qaeda operanti nel paese e di fatto appoggiati dagli Stati Uniti.

La strategia occidentale e della Turchia rischia dunque di infiammare ancora di più il Medio Oriente, trascinando nel conflitto sia i paesi della regione che le altre potenze internazionali, a cominciare dalla Russia. Ciò accade proprio mentre si moltiplicano i resoconti sui media circa la natura dei “ribelli” che si starebbero battendo per la democrazia in Siria.

Un reportage dal confine turco-siriano pubblicato mercoledì dal New York Times, ad esempio, dipinge un ritratto ben poco lusinghiero delle forze di opposizione anti-Assad. Secondo i reporter del Times, dal momento che da qualche tempo le defezioni dei membri delle forze di sicurezza del regime si sono ridotte drasticamente, in un segno evidente dell’impopolarità dei “ribelli”, questi ultimi sono passati a metodi di persuasione non esattamente democratici per convincere i militari a passare tra le loro fila, ricorrendo tra l’altro a rapimenti, minacce e intimidazioni.

Inoltre, un recente articolo del quotidiano libanese Al Akhbar ha a sua volta descritto le profonde divisioni esistenti tra i vari gruppi di opposizione attorno a questioni politiche e ideologiche che hanno già portato a svariati assassini di leader e membri delle fazioni coinvolte. Gli scontri interni sarebbero causati anche da divergenze dovute alla diversa origine dei guerriglieri impegnati nel paese, con gli arabi da una parte e i non-arabi provenienti dal Pakistan, dall’Afghanistan, dalla Cecenia o dai Balcani dall’altra che spesso si rendono protagonisti di abusi sessuali, torture e assassini di civili sospettati di appoggiare il regime di Assad.

Significativamente, il pezzo di Al Akhbar si chiude con la vicenda di alcuni jihadisti libanesi e palestinesi recatisi in Siria per combattere Assad e che recentemente hanno deciso di abbandonare la lotta a causa dei conflitti interni all’opposizione armata e della repulsione provata per i metodi utilizzati.

Nonostante siano perfettamente al corrente del profilo delle forze che stanno sostenendo e finanziando, i governi occidentali, della Turchia e dei loro alleati nel Golfo Persico intendono continuare la loro propaganda anti-Assad, adoperandosi apertamente per favorire un intervento armato esterno che avrebbe conseguenze disastrose per gli equilibri e la già precaria stabilità dell’intera regione mediorientale.

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