Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

A poche ore dalla definitiva chiusura della campagna elettorale per la Casa Bianca, i due principali candidati al successo finale sono stati protagonisti di una serie di frenetici eventi per convincere i pochi votanti ancora indecisi. All’apertura dei seggi in tutto il paese, Barack Obama sembra conservare un lievissimo margine di vantaggio sul rivale repubblicano, Mitt Romney, anche se la presidenza degli Stati Uniti si giocherà alla fine come al solito in una manciata di stati in bilico tra i due contendenti.

Come per gran parte degli ultimi mesi, anche nelle fasi finali della loro campagna Obama e Romney hanno dunque rivolto la loro attenzione proprio a questi stati dove loro stessi, i loro vice - Joe Biden e Paul Ryan - e altri esponenti di spicco dei rispettivi team si sono recati alla vigilia del voto. Nella sola giornata di lunedì, infatti, i quattro componenti dei due “ticket” presidenziali hanno tenuto ben 14 eventi negli stati in bilico, di cui 6 in Ohio che, con i suoi 18 voti elettorali, rappresenta probabilmente il premio più ambito dell’election day.

A partire dalla mattinata di domenica, Obama ha presenziato ad un comizio in New Hampshire a fianco di Bill Clinton per poi spostarsi in Ohio, in Florida e in Colorado. Lunedì, il presidente è poi tornato in Ohio, a Cincinnati, e successivamente ha toccato Wisconsin e Iowa, chiudendo la giornata nel quartier generale di Chicago dove attenderà i risultati del voto. Romney, da parte sua, domenica ha fatto visita per la 14esima volta dell’anno, primarie escluse, in Iowa, spostandosi poi per la 44esima volta in Ohio, a Cleveland, dove è rimasto fino a lunedì prima di muoversi verso Virginia, Florida e New Hampshire. Anche Romney attenderà le sorti della sfida per la Casa Bianca presso la sede del suo comitato elettorale, a Boston.

Sulla situazione della mappa elettorale americana sembrano concordare più o meno tutti i giornali e gli analisti d’oltreoceano. Quella stilata dal New York Times, ad esempio, indica 19 stati più il District of Columbia solidamente a favore di Obama o comunque orientati verso il presidente, per un totale di 243 voti elettorali sui 270 necessari per conquistare la presidenza. Romney avrebbe invece dalla sua 24 stati con 206 voti elettorali complessivi. I rimanenti 7 stati (Colorado, Florida, Iowa, New Hampshire, Ohio, Virginia e Wisconsin), i quali assegnano 89 voti elettorali, risultano in sostanziale equilibrio (“tossup”) e decideranno il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Secondo i sondaggi nazionali, Obama avrebbe invertito la tendenza delle ultime settimane, annullando il vantaggio di Romney dopo il primo dei tre dibattiti presidenziali ad inizio ottobre e spezzando il pareggio registrato ancora più recentemente. Le rilevazioni del fine settimana vanno perciò dal pareggio ancora indicato da CNN, Politico e Rasmussen fino al +3% assegnato a Obama da "Pew Research Center" e al +3,2% da "RAND Corporation", con una media nazionale appena superiore all’1%.

Ancora più importante è tuttavia il vantaggio del presidente in praticamente tutti e 7 gli stati più combattuti, anche se il margine appare piuttosto esile e in alcuni casi in netto calo. Questa situazione consente a Obama di poter contare su una maggiore varietà di opzioni per riconquistare la Casa Bianca. In caso di vittoria in Ohio e in Iowa, infatti, il presidente potrebbe permettersi ad esempio di perdere 4 dei rimanenti 5 stati in bilico, aggiungendo al suo bottino anche solo il piccolo New Hampshire, dove peraltro Romney ha fatto segnare sensibili progressi nelle ultime settimane.

Nei giorni precedenti il voto si è assistito ad una mossa da parte di Romney per cercare di rimettere in discussione anche la Pennsylvania, i cui 20 voti elettorali sembrerebbero già sicuri per Obama. Il miliardario mormone ha lanciato un’offensiva mediatica dell’ultimo minuto in uno stato che nelle presidenziali ha votato l’ultima volta per un candidato repubblicano nel 1988, anche se per i democratici si tratterebbe solo di un tentativo disperato da parte di un team che vede ridotte al minimo le strade verso il successo.

Quasi tutti i sondaggi per gli stati più incerti, in ogni caso, anche se orientati verso Obama, indicano divari tra i due candidati che rientrano nei margini di errore segnalati dai vari istituti di analisi, da qui la cautela mostrata finora dal team presidenziale.

Se l’election day ufficiale è previsto nella sola giornata di martedì, circa 27 milioni di americani in 34 stati, alcuni dei quali considerati “tossup”, hanno già espresso il loro consenso grazie alle leggi che permettono il voto anticipato per posta o di persona. Gli elettori che scelgono di evitare le code o i disagi del giorno del voto sono in genere in netta maggioranza democratici e questa disparità fa in modo che sulla pratica del voto anticipato pesino frequentemente una serie di contese legali. Alcune cause sono già state avviate in questi giorni in Florida e Ohio e, alla luce dell’equilibrio tra i due candidati, le dispute potrebbero influire in maniera decisiva sui risultati finali, come accadde in Florida nel 2000 tra George W. Bush e Al Gore.

Oltre alle presidenziali, martedì negli Stati Uniti si vota anche per il rinnovo di 33 seggi (su 100) del Senato e di tutti i 435 della Camera dei Rappresentanti, i due rami del Congresso rispettivamente controllati dai democratici e dai repubblicani. Secondo i sondaggi più recenti, le due maggioranze non dovrebbero cambiare, con i repubblicani che, a differenza di quanto appariva a portata di mano solo pochi mesi fa, non dovrebbero aggiungere più di uno o due seggi agli attuali 47 che occupano al Senato. Gli equilibri in molte competizioni sono però fragili e il controllo della Camera alta dipenderà anche dall’effetto che il risultato delle presidenziali avrà eventualmente su alcune sfide combattute come quelle di Montana, Nevada, North Dakota, Indiana o Wisconsin.

La Camera totalmente rinnovata che uscirà dal voto di martedì dovrebbe invece rimanere saldamente nelle mani del Partito Repubblicano e dello speaker John Boehner che può contare attualmente su 241 seggi contro i 191 dei democratici. Le previsioni vanno da possibili guadagni di una manciata di seggi per l’opposizione democratica fino ad un rafforzamento della maggioranza che i repubblicani hanno strappato ai rivali nelle elezioni di medio termine del 2010.

Queste prospettive modeste per i democratici la dicono lunga sulla situazione di un partito che è favorito per la conquista della Casa Bianca e per il Senato e che deve confrontarsi con una maggioranza alla Camera tra le più impopolari della recente storia americana. A favorire l’attuale maggioranza, però, sono state anche le manovre legate alla ridefinizione decennale dei distretti elettorali per la Camera, avvenuta recentemente in gran parte sotto la supervisione di Congressi statali e governatori repubblicani eletti due anni fa.

Le elezioni del 2012 sono risultate infine le più costose della storia degli Stati Uniti con almeno 3 miliardi di dollari spesi per la campagna presidenziale ed altrettanti per quelle del Congresso, per numerose cariche locali e referendum vari. Questi numeri da record sono in gran parte la conseguenza degli sforzi di una cerchia relativamente ristretta di super ricchi e appaiono inversamente proporzionali al grado di rappresentatività su cui può contare la stragrande maggioranza degli americani.

Dopo mesi di battaglie, durissimi scontri, proclami e slogan, le settimane a venire lasceranno spazio perciò alla realtà di una politica che, indifferentemente da chi entrerà alla Casa Bianca o da quale maggioranza controllerà il Congresso, sarà impegnata a garantire che gli investimenti dei grandi interessi economici e finanziari vengano ripagati dalla nuova classe dirigente che si insedierà nelle stanze del potere a Washington.

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