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di Michele Paris

La vigilia dell’ennesimo vertice dei cosiddetti “Amici della Siria”, al via da giovedì a Londra, è stata segnata da una serie di eventi legati al paese mediorientale in guerra da oltre tre anni che hanno confermato sia il crescente fallimento dell’opposizione armata anti-Assad sia la volontà dei governi occidentali di continuare ad alimentare il conflitto in corso, ricorrendo ancora una volta, se necessario, a menzogne e manipolazioni della realtà.

L’ammissione della totale incapacità da parte della comunità internazionale anche solo di gettare le basi per un negoziato efficace sulla crisi è avvenuta martedì con le dimissioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Lakhdar Brahimi.

Il diplomatico algerino ha annunciato la propria decisione ai membri del Consiglio di Sicurezza nel corso di una riunione a porte chiuse, durante la quale avrebbe espresso delusione per la mancanza di impegno da parte dei sostenitori di entrambi gli schieramenti nel fermare l’afflusso di armi in Siria e di alleviare la crisi umanitaria.

La sorte di Brahimi era risultata evidente già nel mese di marzo, quando i colloqui di Ginevra tra il regime e l’opposizione “moderata” erano finiti nel nulla dopo due round di negoziati. Per il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, l’impossibilità di percorrere la strada diplomatica sarebbe dovuta all’intransigenza mostrata al tavolo delle trattative da Assad e dai suoi uomini.

Lo stesso Brahimi, nonostante abbia puntato il dito contro tutte le parti in causa per la drammatica evoluzione della crisi in Siria, ha più volte lasciato intendere che il fallimento dei negoziati di Ginevra è la diretta conseguenza della decisione del regime di Damasco di organizzare le elezioni presidenziali per il 3 giugno prossimo nelle quali Assad sarà regolarmente tra i candidati.

Le affermazioni di Ban e Brahimi la dicono lunga sulla presunta imparzialità delle Nazioni Unite in relazione alla Siria, visto che le ragioni principali del naufragio di qualsiasi ipotesi diplomatica sono da ricercare piuttosto nell’inflessibilità mostrata a Ginevra dai rappresentanti dell’opposizione anti-Assad.

I “ribelli”, cioè, hanno sempre posto come condizione imprescindibile per l’accettazione di un eventuale piano di transizione l’esclusione del presidente siriano e degli uomini ritenuti più compromessi del suo regime, negando così una realtà militare sempre più favorevole a Damasco e sorvolando sull’avversione nutrita dalla maggior parte della popolazione nei confronti di un’opposizione composta in larga misura da forze fondamentaliste violente.

Proprio mentre Brahimi rassegnava le proprie dimissioni, la visita a Washington del leader politico dell’opposizione siriana, Ahmad Jarba, raggiungeva il proprio culmine con un incontro alla Casa Bianca. Il burattino saudita aveva trascorso i giorni precedenti parlando a media e think tank americani, nel tentativo di raccogliere consensi per la richiesta da sottoporre all’amministrazione Obama di fornire ai ribelli nuove armi, in particolare missili terra-aria per abbattere gli aerei del regime.

Jarba, dopo avere incassato da Washington il riconoscimento dello status di “missione diplomatica” per l’organizzazione che dirige, aveva anche confermato che gli USA hanno recentemente fornito missili anti-carro al Libero Esercito della Siria, per poi sottolineare la competenza e la responsabilità che i militanti anti-Assad avrebbero mostrato con queste armi.

Il presidente Obama, così come gli uomini all’interno dell’amministrazione democratica che condividono la sua posizione relativamente cauta sulla Siria, continua però a dubitare dell’opportunià di fornire i cosiddetti “manpads” ai ribelli, visto che con ogni probabilità queste armi finirebbero nelle mani di formazioni estremiste che le potrebbero utilizzare contro velivoli commerciali.

Questa possibilità è stata confermata da un articolo uscito la settimana scorsa sul Wall Street Journal, nel quale alcune fonti all’interno del Libero Esercito della Siria hanno rivelato come le fazioni anti-Assad ritenute “moderate” dall’Occidente stiano collaborando da qualche settimana con il Fronte al-Nusra, vale a dire l’unica organizzazione riconosciuta ufficialmente da Al-Qaeda tra quelle attive in Siria.

In particolare, il Libero Esercito e il Fronte al-Nusra sono partner sui campi di battaglia nel sud-ovest della Siria, non lontano dalle alture del Golan occupate da Israle, dove tra l’altro gli Stati Uniti operano da tempo tramite la CIA un programma di addestramento per i ribelli.

Se le rassicurazioni di Jarba sono dunque crollate miseramente già prima di essere esposte al presidente Obama, le manovre per mantenere la Siria nel caos da parte dell’Occidente, in alternativa al sogno per ora irrealizzabile di provocare la caduta di Assad, stanno passando anche da altre strade, sia pure non esattamente nuove.

Con una dose difficilmente misurabile di ipocrisia e cinismo, ad esempio, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, sempre nella giornata di martedì, ha espresso il proprio rammarico per la mancata decisione da parte di Obama di bombardare la Siria dopo le accuse mosse contro Assad l’agosto scorso per avere usato armi chimiche contro i ribelli.

Secondo Fabius, se il governo USA in quell’occasione avesse dato seguito alle proprie minacce autorizzando attacchi aerei contro il regime, “molte cose sarebbero cambiate”. In effetti, se Washington avesse inaugurato una nuova guerra criminale basata sulla menzogna in Medio Oriente, la Siria sarebbe oggi, quanto meno, già nelle mani di bande fondamentaliste sull’esempio della Libia “liberata” dalla NATO.

La criminalità della tesi di Fabius è amplificata dal fatto che le sue dichiarazioni rilasciate a Washington giungono dopo quasi nove mesi dagli attacchi in questione, avvenuti a Ghouta, nei pressi di Damasco, durante i quali sono emersi numerosi dettagli e rivelazioni - anche se quasi mai riportati dai media ufficiali - che hanno dimostrato come l’uso di armi chimiche fosse da attribuire quasi certamente proprio alle formazioni ribelli, interessate a provocare la reazione della comunità internazionale contro un regime che già allora stava mettendo a segno importanti successi militari sul campo.

Il giornalista investigativo americano Seymour Hersh, soprattutto, nei mesi scorsi ha pubblicato due indagini molto approfondite per smontare la tesi americana della responsabilità di Assad, rivelando tra l’altro come gli USA sapevano perfettamente delle capacità dei ribelli di produrre e utilizzare il Sarin a scopi bellici e come dietro all’attacco di Ghouta ci fosse addirittura il governo turco, disperatamente intenzionato a provocare un intervento internazionale per rimuovere il regime di Damasco.

Ciononostante, Fabius è tornato nuovamente ad accusare Assad di avere condotto 14 attacchi con armi chimiche a partire dallo scorso ottobre, sostanzialmente da quando ha accettato l’accordo USA-Russia per la distruzione del proprio arsenale. Il ministro francese ha citato “testimoni credibili”, verosimilmente pescati tra le fila dei ribelli e, perciò, nessuno di essi nella posizione di fornire prove irrefutabili che, infatti, non sono state presentate.

Le accuse infondate di Fabius potrebbero servire in ogni caso da pretesto agli “Amici della Siria” riuniti a Londra per aumentare il loro impegno a favore dei ribelli, così come allo scopo tornerà utile un rapporto diffuso ancora martedì da Human Rights Watch sull’uso di armi chimiche.

L’organizzazione americana, teoricamente indipendente, sostiene che nel mese di Aprile le forze del regime avevano lanciato bombe al cloro su tre città nel nord della Siria. Pur affermando che quelle reperite su questi attacchi sarebbero “prove”, Human Rights Watch ha dovuto ammettere che “non è stato possibile confermarle in maniera indipendente”. Anche in questo caso, appare evidente, le presunte “prove” devono essere state fornite esclusivamente dalle forze anti-governative.

L’allineamento di Human Rights Watch alle posizioni del Dipartimento di Stato americano appare peraltro ben poco sorprendente, visti i legami di molti suoi uomini di spicco con il governo USA, a cominciare da Tom Malinovski, recentemente dimessosi da responsabile delle relazioni dell’organizzazione per i diritti umani a Washington per diventare assistente al segretario di Stato per “la democrazia, i diritti umani e il lavoro”.

Il problema di credibilità di Human Rights Watch è stato in questi giorni sollevato anche da un gruppo di autorevoli accademici, tra cui il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel, i quali hanno indirizzato una lettera al direttore esecutivo Kenneth Roth per denunciare i rapporti della sua organizzazione con il governo di Washington che ne mettono in dubbio l’indipendenza.

Oltre a Malinovski, che ricoprì vari incarichi già durante l’amministrazione Clinton, la lettera evidenzia la presenza nel comitato consultivo di Human Rights Watch di personaggi come ad esempio Myles Frechette, ex ambasciatore USA in Colombia, Miguel Diaz, ex analista della CIA, e Michael Shifter, già direttore per l’America Latina del “National Endowment for Democracy”, uno degli strumenti utilizzati da Washington per la destabilizzazione di governi stranieri poco graditi.

Tra gli altri possibili sviluppi della crisi siriana vanno infine segnalate le bozze di due risoluzioni ONU proposte da Russia e Francia. Mentre la prima intende estendere ad altre località del paese in guerra il recente accordo di cessate il fuoco negoziato a Homs tra il regime e l’opposizione armata, la seconda è un altro capolavoro di ipocrisia occidentale.

Con essa, Parigi vorrebbe deferire il caso della guerra in Siria al Tribunale Penale Internazionale ma la sua vera natura è illustrata dalle manovre francesi per definirne il testo. La risoluzione, infatti, è stata studiata per limitare le indagini sui crimini commessi in Siria a dopo il 2011, così da escludere quelli commessi in precedenza da Israele nelle alture del Golan, e per dispensare da eventuali incriminazioni i cittadini dei paesi non firmatari dello Statuto di Roma - che ha istituito appunto il Tribunale - ad eccezione della Siria.

Quest’ultima disposizione serve appositamente a escludere qualsiasi denuncia ai danni di membri del governo e delle forze armate degli Stati Uniti, nel caso in cui il paese più importante che non ha mai ratificato lo Statuto di Roma decidesse di invadere la Siria per forzare il cambio di regime.

Se la risoluzione francese dovesse finire ai voti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Russia ha comunque già annunciato di volere esercitare il proprio diritto di veto.