Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Dopo mesi di scontri verbali, intese fallite e una guerra civile sfiorata, i due candidati alla presidenza dell’Afghanistan, sfidatisi in un controverso ballottaggio nel giugno scorso, sembrano avere messo da parte tutto il loro risentimento per siglare finalmente un accordo mediato dagli Stati Uniti che dovrebbe consentire al paese centro-asiatico occupato di inaugurare un nuovo presidente nei prossimi giorni.

L’ex ministro delle Finanze e già funzionario della Banca Mondiale, Ashraf Ghani, e l’ex ministro degli Esteri nonché leader dell’Alleanza del Nord, Abdullah Abdullah, hanno così firmato nel fine settimana un documento di quattro pagine alla presenza dell’ambasciatore americano, James Cunningham, e del rappresentante delle Nazioni Unite in Afghanistan, l’ex ministro degli Esteri slovacco Jan Kubis, poco dopo una cerimonia ufficiale presieduta dal presidente uscente, Hamid Karzai.

L’accordo ha consentito alla Commissione Elettorale Indipendente di proclamare ufficialmente Ghani nuovo presidente a cinque mesi dal primo turno delle elezioni e più di tre mesi dopo il ballottaggio. Il candidato sconfitto o un’altra personalità di sua scelta dovrà invece essere nominato “capo del governo” dal nuovo presidente, con incarichi simili a quelli solitamente riservati a un primo ministro.

A testimonianza delle difficoltà incontrate nel raggiungere una soluzione condivisa della crisi, la carica stessa che dovrebbe andare ad Abdullah non è nemmeno prevista dal sistema politico afgano ma dovrà essere creata appositamente tramite una modifica alla Costituzione da approvare entro due anni.

Idealmente, Ghani e Abdullah dovrebbero poi dividere i ministeri e le altre cariche di governo tra i rispettivi sostenitori, anche se quest’ultimo punto, così come l’intera architettura dell’accordo, incontrerà probabilmente serie difficoltà già nell’immediato futuro.

Gli ostacoli sulla via della transizione dall’era Karzai sono stati anticipati nel corso della breve cerimonia di domenica a Kabul. In quindici minuti, i due candidati alla poltrona di presidente non hanno aperto bocca, sono stati protagonisti di un abbraccio estremamente freddo con un debole applauso di sottofondo e si sono sottratti alla conferenza stampa congiunta che era in programma.

I termini dell’accordo erano stati peraltro già sottoscritti nel mese di luglio in seguito all’intervento diretto del segretario di Stato USA, John Kerry, anche se da subito era stata la diffidenza a prevalere. L’ex senatore democratico era giunto a Kabul per fermare l’escalation dello scontro che minacciava di sfociare in un pericoloso confronto armato tra le due fazioni facenti capo ai principali candidati alla successione di Karzai.

Nel primo turno delle presidenziali del 5 aprile era stato Abdullah a prevalere con il 45% dei consensi e oltre 13 punti di vantaggio su Ghani, ma senza riuscire a evitare il ballottaggio con il suo più immediato rivale. Nel secondo turno, gli equilibri erano però totalmente cambiati e i risultati preliminari diffusi a luglio avevano indicato una netta vittoria di Ghani.

Abdullah e i suoi seguaci avevano subito denunciato la Commissione Elettorale, parlando di brogli diffusi a favore di Ghani in una sorta di ripetizione dell’elezione-farsa del 2009, quando Karzai venne rieletto dopo il ritiro tra le polemiche dello stesso ex ministro degli Esteri dal secondo turno di ballottaggio.

La minaccia di assistere a una crisi prolungata, che avrebbe potuto mettere ulteriormente a rischio la firma sull’accordo per il mantenimento di un sostanzioso contingente militare americano dopo il 31 dicembre 2014, aveva spinto l’amministrazione Obama a intervenire.

Kerry, come anticipato, aveva così mediato un’intesa tra i due contendenti, lanciando inoltre un riconteggio delle schede elettorali sotto la supervisione dell’ONU. Questo processo di revisione aveva però faticato a decollare, soprattutto a causa delle proteste di Abdullah per la mancanza di regole chiare sul trattamento da riservare alle schede contestate.

Il team di Abdullah aveva allora ritirato i propri osservatori dal riconteggio in segno di protesta, minacciando di fatto l’intero processo. Per evitare il caos, verosimilmente dietro pressioni USA, anche Ghani aveva finito per ritirare i suoi uomini, lasciando le operazioni di riconteggio al solo personale ONU.

In definitiva, nessuna seria revisione è stata effettuata e la parte dell’accordo relativa alle schede si è risolta in una vera e propria farsa, tanto che domenica la Commissione Elettorale afgana non ha nemmeno reso noti i risultati ufficiali che avrebbero assegnato la vittoria ad Ashraf Ghani. Alcuni anonimi diplomatici occidentali hanno comunque rivelato ai media che quest’ultimo avrebbe vinto con il 56% dei voti, contro il 44% per Abdullah, e che il riconteggio non ha riscontrato irregolarità tali da cambiare l’esito del voto.

Se alla fine Ghani e Abdullah sembrano essere stati convinti dall’amministrazione Obama ad accordarsi sull’implementazione dell’intesa voluta da Washington dopo vari rinvii, che hanno costretto Karzai a rimanere in carica come presidente anche dopo la scadenza del suo mandato, una risoluzione pacifica della crisi appare tutt’altro che scontata.

Infatti, i due leader afgani nelle scorse settimane erano sembrati su posizioni diametralmente opposte riguardo la natura del governo di “unità nazionale” da far nascere. Ghani, ad esempio, riteneva che il presidente avrebbe dovuto mantenere tutti gli ampi poteri garantitigli dalla Costituzione e che l’incarico di “capo di governo” sarebbe stato poco più di un simbolico premio di consolazione per il suo rivale. Abdullah, al contrario, per accettare la sconfitta intendeva avere in cambio un ruolo di qualche peso nell’amministrazione del paese.

Mentre non è affatto chiaro se i due abbiano risolto le loro divergenze, ciò che risulta praticamente certo è che l’insediamento formale di Ashraf Ghani, previsto secondo alcuni per il 29 settembre, consentirà agli Stati Uniti di avere la tanto sospirata firma del nuovo presidente afgano sul trattato che formalizza la permanenza indefinita di soldati americani nel paese invaso nel 2001 dopo il ritiro delle truppe di combattimento NATO a fine anno.

Il trattato era stato negoziato un anno fa con Karzai, il quale si era però rifiutato più volte di ratificarlo, con ogni probabilità per non legare il suo nome a un documento che determinerà l’occupazione permanente del suo paese da parte americana.

Tutti i candidati alle elezioni presidenziali avevano in ogni caso promesso di sottoscrivere l’accordo con Washington una volta eletti, inclusi Ghani e Abdullah, entrambi in buoni rapporti con i loro padroni dall’altra parte dell’oceano.

Lo stesso accordo, che dovrebbe mantenere indefinitamente un minimo di 10 mila uomini nel paese centro-asiatico stragicamente fondamentale per gli interessi statunitensi, potrebbe tuttavia rappresentare anche una fonte di divisioni tra Ghani e Abdullah, dal momento che entrambi cercheranno di ottenere il massimo per sé e la propria cerchia dai vantaggi che esso comporta.

Oltre agli evidenti benefici economici in un’economia che conta quasi esclusivamente sul flusso di denaro associato all’occupazione militare, poi, la classe dirigente afgana è ben consapevole di sedere ai vertici di un sistema molto fragile, la cui sopravvivenza anche letterale dipende interamente dai militari occidentali.

I giornali USA in questi giorni hanno ricordato come i Talebani abbiano operato attacchi con un’efficacia quasi senza precedenti durante i mesi estivi, approfittando dello stallo politico a Kabul. Ciò è avvenuto nonostante i quasi 50 mila soldati di occupazione ancora presenti in Afghanistan, lasciando presagire perciò un fututo decisamente cupo per i leader politici filo-occidentali in caso di ritiro totale delle forze NATO.

Già le prossime settimane, dunque, potrebbero chiarire se a prevalere tra Ghani e Abdullah sarà l’armonia, dettata dal timore di perdere ricchezze e potere derivanti dall’occupazione del loro paese, o lo scontro, determinato dal desiderio di avvantaggiarsi sulla fazione rivale per mettere le mani sulla fetta più grande possibile della torta derivante dalla continua sottomissione dell’Afghanistan a una potenza straniera.

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