Ue-Russia, contro legge e logica

di Fabrizio Casari

Truppe, armi e propaganda, ma non solo. I soldi, non mancano mai i soldi. Quando si volesse cercare un elemento simbolico per descrivere la crisi d’identità politica e di prospettiva dell’Unione Europea, ormai estensione statunitense, c'è la vicenda del sequestro dei beni russi a seguito del conflitto in Ucraina. La vicenda in sé, infatti, presenta una miscela di subordinazione ideologica,...
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Rafah e ONU, Israele al bivio

di Mario Lombardo

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato lunedì per la prima volta dall’inizio dell’aggressione israeliana una risoluzione che chiede l’immediato cessate il fuoco nella striscia di Gaza. Il provvedimento è passato con 14 voti a favore e la sola astensione degli Stati Uniti, che hanno rinunciato al potere di veto, provocando una durissima reazione da parte del regime israeliano. Per tutta risposta, Netanyahu ha annullato la visita a Washington di una delegazione che avrebbe dovuto discutere con la Casa Bianca la possibile operazione militare nella città di Rafah, al confine tra la striscia e l’Egitto. Questa iniziativa, dalle implicazioni potenzialmente devastanti, resta al centro dell’attenzione della...
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di Fabrizio Casari

Le recenti elezioni di mid term che hanno consegnato ai Repubblicani il controllo del Senato e rinforzato quello sul Congresso, sembrano aver ulteriormente complicato la politica di Barak Obama. Le contraddizioni di una leadership tutt’altro che autorevole, che non riesce a disegnare una strategia chiara per la regione mediorientale e l’Asia minore, in difficoltà a chiudere l’accordo sul nucleare con l’Iran e ambigua nel decidere come impegnarsi in Afghanistan e Siria, sembrano essere la cifra di una presidenza che pare avviata ad una fine mandato irta di scogli difficili da superare.

Il recente licenziamento del Segretario alla Difesa Hagel, di per sé non certo una consuetudine nella politica statunitense, indica le difficoltà a disegnare una politica estera e militare (due facce della stessa medaglia) da parte della Casa Bianca, ormai prigioniera delle logiche dell’impero e dall’esaurimento di credibilità riformatrice del suo presidente.

Se non ci si vuole rassegnare alla narrazione propagandistica della politica statunitense, che racconta di un portatore sano di democrazia e baluardo di valori e diritti, occupato a garantire la sicurezza del mondo, si può constatare come la realtà sia molto diversa. Quanto avviene in Iraq e Siria dice che Obama sembra prigioniero di una storica dualità tipica dell’impero USA. Quella di combattere l’estremismo islamico a parole mentre lo si sostiene nei fatti.

Due forni e due tempi: quello del sostegno organizzativo per costituire utili armate da impiegare nella scacchiera internazionale contro i suoi avversari, salvo trasformarle poi in utilissimo nemico quando le milizie si sganciano dall’orbita statunitense e non servono più a perseguire gli obiettivi di politica estera di Washington. In entrambe le circostanze gli armati svolgono un ruolo importante: nel primo caso, dove conducono guerre per procura, sostituiscono l’impegno diretto di Washington che comunque s’intesta la dimensione politica dei conflitti, utilizzandoli come clava e monito. Nel secondo caso, gli armati e le loro operazioni divengono la principale giustificazione ad un ingaggio degli USA nelle nuove guerre, con il risultato di rimettere in moto l’industria bellica e i suoi apparati di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per sostenere la loro economia interna e la loro leadership internazionale. Sono ormai diversi i casi di alleati di un tempo divenuti nemici in un secondo tempo, da Manuel Noriega a Panama fino a Saddam Hussein in Iraq, da Osama bin Ladin fino ad Al Baghdadi. La storia si ripete e le vicende attuali sembrano confermarlo.

In Siria, come in Iraq, nelle file dei tagliatori di teste che usano l’Islam per spiegare la loro criminale frustrazione, oltre alle componenti sunnite giunte da diversi paesi grazie ai soldi del Qatar e all’aiuto dell’Arabia Saudita, combattono anche uomini che provengono dai Balcani. In particolare da Kosovo e Bosnia, ma anche dalla Macedonia. Per non parlare di quanti ne arrivano dalla Cecenia. Alcuni di essi, stando a quanto riferiscono le indagini, hanno lavorato addirittura in basi statunitensi, che ormai sono ovunque a garantire che la destabilizzazione ad uso e convenienza del primato del dollaro sia ovunque.

Dall’Afghanistan al Pakistan, dallo Yemen alla Somalia, dalla Bosnia Erzegovina al Kosovo, dalla Libia fino alla stessa Siria, le truppe dell’orrore si sono formate dagli anni ’80 ad oggi in ragione e forza delle guerre scatenate dagli Stati Uniti con l’accodamento servile e puntuale dell’Europa.

Gli Stati Uniti si dicono in prima fila contro il terrorismo islamico, ma è un falso storico, propaganda allo stato puro, occultamento delle verità storiche e delle responsabilità politiche. Sono infatti gli Stati Uniti che finanziarono, addestrarono e diressero i mujaheddin che combatterono contro l’invasione russa dell’Afghanistan e che, nel 1996, si unirono ai Talebani permettendo la conquista del paese. E sono gli stessi Stati Uniti che, nella guerra dei Balcani, si adoperarono in ogni modo per sostenere i musulmani della Bosnia Erzegovina, così come anni dopo aiutarono clandestinamente i musulmani ceceni.

Nella logica dello scontro con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi, Washington costruì con denaro e assistenza militare quasi tutti i reparti militari che oggi combattono, perlomeno a livello di linee di comando. Washington non è innocente: volle lo smembramento della ex-Jugoslavia in quanto retroterra determinante per la sicurezza russa e, quindi, ostacolo da superare per allargare ad Est la NATO ed estendere così il controllo militare degli Stati Uniti sull’Europa orientale.

Con gli integralisti islamici gli Stati Uniti hanno sempre lanciato moniti pubblici mentre tessevano buonissime relazioni e accordi inconfessabili sotto il tavolo. Con gli ayatollah iraniani, in pieno embargo e assenza delle relazioni diplomatiche, gli Stati Uniti organizzarono il traffico d’armi destinato ai Contras in Nicaragua, le truppe terroriste che Washington addestrava e finanziava in funzione antisandinista.

Nell’area del Golfo Persico va ricordato che la famiglia di Osama bin Ladin è stata per anni partner commerciale e politico del Pentagono e che lo stesso, inserito nei quadri irregolari della CIA, iniziò la costruzione della sua Al-Queda con la benedizione politica statunitense, il denaro  dell’Arabia Saudita e la collaborazione attiva dei servizi segreti pakistani, da sempre paese alleato degli USA. Si costruì il mostro pur di combattere il nemico. E dunque perché stupirsi oggi dell’irriducibilità dell’Isis che da Al-Queda proviene? Come ebbe a dire Hillary Clinton, “non puoi tenere serpenti nel giardino e poi sperare che mordano solo i tuoi nemici”.

Sono proprio le ripercussioni delle due guerre nel Golfo e delle cosiddette “primavere arabe” che segnano l’aggiornamento della strategia statunitense in Medio Oriente. Le primavere arabe, che pure hanno avuto elementi decisivi endogeni, esplosero perché abilmente sollecitate dall’esterno. Le gravi responsabilità dei regimi di Egitto, Libia, Siria ed altri hanno certamente contribuito in misura determinante alle rivolte, che hanno però trovato la benzina che le ha alimentate generosamente offerta dallo Zio Sam e da Ryad.

Non ovunque però “il virus della democrazia” attecchì: in Barheim le proteste vennero represse nel sangue ed il regime restò in sella, ma lì gli interessi sauditi e americani imposero il silenzio. Idem in Giordania, dove l’interesse strategico di Israele per la monarchia giordana impedì che la protesta trovasse aiuti e sostegno politico dall’Occidente, con il risultato che il tentativo morì sul nascere.

Invece nei paesi un tempo membri del “Fronte del rifiuto” e ancora governati dal partito Baath ad ispirazione panarabista, le cose andarono diversamente e l’Occidente soffiò sul fuoco dell’islamismo. Non furono forse gli Stati Uniti che  sostennero i Fratelli Musulmani in Egitto, poi abbandonati su pressione di Israele per l’appoggio logistico ad Hamas a Gaza? E non furono gli Stati Uniti che misero il peso politico decisivo per deporre Gheddafi e consegnare la Libia alle tribù islamiste della Cirenaica? E non furono sempre gli Stati Uniti a decidere la guerra alla Siria, soffiando sul fuoco della follia sunnita e tentando di deporre con la forza Assad, grazie anche all’aiuto dell’alleato turco, che attraverso la frontiera con la Siria fa transitare armi e mezzi per i guerriglieri sunniti?

Certo, Erdogan ha il suo interesse nel far virare la Turchia verso l’islamizzazione, anche come risposta al sacrosanto rifiuto dell’Europa ad accogliere Ankara nella Ue. Ma davvero un paese membro della Nato, così militarmente ed economicamente legato agli USA avrebbe messo in campo i suoi servizi e la sua aviazione senza che da Washington fosse giunto il via libera? Più credibilmente, Erdogan esegue il lavoro sporco che Obama non può fare.

Molti osservatori statunitensi ritengono che la strategia messa a punto da Obama per le primavere arabe abbia fallito, che la Casa Bianca sia ostaggio della sua politica confusa. Ma se per la pace in Medio Oriente è senz’altro così, per gli interessi statunitensi il discorso cambia. Nonostante la narrazione favolistica sui diritti umani e sull’anelare alla democrazia da parte di popoli che non l’hanno mai nemmeno conosciuta, cosa sono state, a consuntivo, le cosiddette “primavere arabe” se non il disarcionare con la forza i regimi laici non completamente disponibili ad accettare il nuovo comando saudita e salafita voluto da Ryad e Doha e sostenuto da Washington e Tel Aviv?

Dal punto di vista USA le primavere arabe non sono affatto state inutili. Lungi dall’iniettare democrazia, esse avevano lo scopo di disegnare una mappa completamente diversa dell’area e rispondevano alle esigenze di espansionismo politico di Ryad e Doha; in qualche modo l’obiettivo è stato raggiunto. Le monarchie saudite, infatti, ritengono sia arrivato il momento di giocare un ruolo di direzione politica nell’area, convinti che le ricchezze di cui dispongono e lo stretto legame con Washington siano armi decisive nella lotta per il dominio politico della regione.

Ma non tutto è semplice e l’innescarsi del conflitto interreligioso apre scenari difficili da valutare una volta e per tutte. C’è da fare i conti con l’Iran e con la divergenza d’interessi che esso determina tra gli USA e i suoi alleati; Washington, che comunque ritiene di non dover lasciare troppo spazio ai sauditi, anche solo in funzione di limitazione delle loro ambizioni ha bisogno di un accordo con gli Ayatollah, cui magari delegare anche la soluzione del problema ISIS. Ma a Ryad e a Doha, così come a Tel Aviv, le cose vengono viste con molta preoccupazione e le rassicurazioni statunitensi non sono evidentemente ritenute sufficienti. E' notorio che senza la protezione americana la famiglia reale saudita e tutti gli emiri del Golfo non durerebbero una settimana di fronte ad una resa dei conti con l’Iran.

Se salafiti e wahabbiti vogliono controllare il Golfo Persico, non possono non tener conto della forza degli sciiti al potere a Teheran. Impossibile ignorare il peso di una potenza regionale e, benché il regime iraniano sia in parte scosso dalle spinte verso un almeno parziale ma urgente processo riformatore, il suo peso politico, militare e religioso resta rilevante.

Per questo risulta così difficile il raggiungimento di un accordo a Vienna sul nucleare: gli interessi diretti di Washington da un lato e di Ryad e Tel Aviv dall’altro configgono, ma gli USA, che pure vogliono ricucire con l'Iran, non possono permettersi d’ignorare le esigenze dei loro alleati.

D’altra parte la destabilizzazione permanente del Medio Oriente come dell’Est Europa è sempre stato e ancor più è diventato oggi, di fronte alla crisi della leadership statunitense, l’elemento decisivo per il mantenimento di una presenza militare diretta e indiretta.

Il messaggio era ed è chiaro: per quanto la nostra economia possa essere in difficoltà, per quanto la nostra leadership non sia più incontestabile, sebbene altre aggregazioni di paesi emergenti, di grande peso demografico e con grandi prospettive socioeconomiche, possano ergersi a partner possibili della governance globale, sono sempre e solo gli Stati Uniti che dominano il pianeta grazie alla forza militare ed al vassallaggio dei loro alleati.

Il mondo è certamente un luogo pericoloso, ma il mantenimento del comando unipolare non può essere messo in discussione; dove succede, la destabilizzazione interna e l’aggressione esterna saranno i passi che gli USA muoveranno a difesa della loro supremazia, condizione necessaria nella battaglia globale per la difesa dei propri interessi.


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