Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Michele Paris

Con il voto definitivo del Senato nel fine settimana, il Congresso di Washington ha scongiurato ogni rischio di una nuova paralisi degli uffici federali negli Stati Uniti in seguito all’approvazione del bilancio da oltre mille miliardi di dollari per il prossimo anno. Alla vigilia del cambio di maggioranza in entrambi i rami dell’assemblea legislativa USA, l’accordo tra i due partiti per il finanziamento dell’attività di governo è stato però raggiunto a fatica e, soprattutto, ha incluso misure fortemente controverse decise dietro le spalle della popolazione.

Il documento di 1.600 pagine ha passato sabato l’ostacolo del senato con 56 voti a favore e 40 contrari. L’ala cosiddetta “progressista” del Partito Democratico ha contestato l’intesa bipartisan sul bilancio principalmente per l’aggiunta di una disposizione che indebolisce la già fragile riforma dell’industria finanziaria (“Dodd-Frank Act”) approvata nel 2010.

Secondo quanto riportato da alcuni giornali americani, questa misura inserita nel bilancio sarebbe stata di fatto dettata dalle grandi banche, impegnate in una frenetica attività di “lobbying”. Lo stesso numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon, avrebbe ad esempio telefonato personalmente ad alcuni membri del Congresso per convincerli ad approvare l’emendamento alla riforma “Dodd-Frank”.

Dopo il voto dei giorni scorsi, così, gli istituti americani torneranno ad avere la possibilità di utilizzare i depositi dei loro clienti - assicurati dal governo e, quindi, dai contribuenti - per speculare in rischiose transazioni finanziarie come i derivati.

L’altra misura inserita di soppiatto quasi senza nessun dibattito riguarda invece il finanziamento diretto dei partiti, i quali a partire dalla prossima campagna elettorale potranno ricevere contributi per un massimo di oltre tre milioni di dollari da una singola coppia di donatori, cioè tre volte di più rispetto ai limiti imposti dall’attuale legge “McCain-Feingold” del 2002.

Queste due iniziative avevano messo in dubbio l’approvazione del bilancio anche alla Camera dei Rappresentanti, costringendo la stessa Casa Bianca a intervenire. Nella giornata di giovedì, infatti, il voto alla Camera era stato rinviato di parecchie ore, così da permettere allo staff del presidente Obama di reclutare un numero sufficiente di deputati democratici disponibili a votare a favore del pacchetto.

Ciò si era reso necessario anche in seguito alla defezione di un ampio numero di deputati della maggioranza repubblicana, in particolare quelli più conservatori e vicini ai Tea Party che volevano una misura che bloccasse esplicitamente il recente ordine esecutivo firmato da Obama per limitare in maniera relativa le deportazioni di immigrati illegali in territorio americano. La stessa leader di minoranza alla Camera, Nancy Pelosi, aveva pubblicamente criticato la Casa Bianca pur lasciando liberi i suoi deputati di votare secondo coscienza per il bilancio, assicurando così di fatto il passaggio dell’intero provvedimento.

Alla fine, 57 democratici si sono uniti a 162 repubblicani per garantire l’approvazione di un pacchetto di stanziamenti che consente in primo luogo di finanziare le attività belliche degli Stati Uniti all’estero, così come l’apparato di controllo e repressione sul suolo domestico. Dei 1.100 miliardi di dollari stanziati, ben 521 miliardi andranno direttamente alle operazioni militari, mentre 492 miliardi saranno per scopi teoricamente “non militari”.

In realtà, in quest’ultima cifra è incluso il finanziamento di operazioni legate alla “sicurezza nazionale”, come ad esempio quelle dell’unità del Dipartimento dell’Energia che si occupa dell’arsenale nucleare americano, ma anche dell’FBI, della DEA, del programma per la militarizzazione dei reparti di polizia locale e del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS).

In particolare, riguardo quest’ultimo ministero è stata prevista un’eccezione nel bilancio che copre le spese del governo fino al 15 settembre 2015. Il DHS, che è incaricato di implementare il già ricordato ordine esecutivo di Obama sull’immigrazione, avrà infatti fondi solo fino al prossimo 27 febbraio.

I repubblicani hanno voluto punire in questo modo la Casa Bianca per l’iniziativa sull’immigrazione presa unilateralmente dopo le elezioni di metà mandato. A fine febbraio si prospetta perciò una nuova battaglia in questo ambito, anche se il Dipartimento della Sicurezza Interna ricava buona parte dei propri fondi non dagli stanziamenti del Congresso ma direttamente dalle tasse sulle domande degli immigrati che intendono regolarizzare la propria posizione.

In ogni caso, il presunto scontro attorno al bilancio di queste settimane è stato risolto in maniera diversa rispetto a quello dello scorso anno, quando la mancanza di un accordo causò il cosiddetto “shutdown” degli uffici governativi per 16 giorni nel mese di ottobre.

In questa occasione, le frange considerate “estreme” dei due partiti - almeno per gli standard della politica USA - che hanno criticato l’intesa sul bilancio hanno avuto la peggio, cedendo alle forze che non volevano il ripetersi dell’esperienza del 2013 per non danneggiare il sistema America, in particolare all’interno degli ambienti economico-finanziari.

Anche per questa ragione, uno dei possibili candidati alla Casa Bianca per i repubblicani nel 2016, Ted Cruz, ha subito un’altra pesante sconfitta politica nel tardo pomeriggio di sabato. Il senatore del Texas di estrema destra aveva cercato e ottenuto un voto sulla costituzionalità del decreto di Obama sull’immigrazione ma è stato battuto sonoramente anche grazie ai suoi compagni di partito.

Non solo: il prolungamento della sessione del Senato provocata dalla richiesta di Cruz - e del senatore Mike Lee dello Utah - ha consentito al leader uscente di maggioranza, il democratico Harry Reid, di sfruttare un espediente procedurale per forzare un voto, con esito positivo, sulla conferma di oltre 20 candidati a varie cariche di governo nominati da Obama e bloccati da tempo dall’ostruzionismo repubblicano.

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