Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

L’assedio e la liberazione di quasi tutti gli ostaggi da parte di un commando delle forze speciali australiane in un caffè nel centro di Sydney nelle primissime ore di martedì sono stati ancora una volta sfruttati dal governo di Canberra per alimentare il clima di panico nel paese a causa di possibili nuove minacce terroristiche e per proseguire nell’implementazione di misure da stato di polizia.

La ormai nota vicenda relativa al caffè Lindt ha avuto la sua conclusione in maniera tragica dopo che attorno alle due del mattino erano stati sentiti spari provenire dall’interno del locale, dove un rifugiato iraniano da due decenni in Australia stava tenendo in ostaggio una decina di persone.

Le ultime ore dell’assedio appaiono però confuse, visto che la polizia aveva tenuto i giornalisti a distanza e il resoconto di quanto è avvenuto prima e dopo l’irruzione del commando è stato fornito esclusivamente dalle autorità.

Secondo la versione ufficiale, uno degli ostaggi - il 34enne Tori Johnson, direttore del caffè - avrebbe a un certo punto cercato di sottrarre la pistola al sequestratore mentre era sul punto di addormentarsi. Accortosi del tentativo, quest’ultimo avrebbe sparato all’uomo uccidendolo e innescando l’intervento delle forze speciali, in seguito al quale lo stesso sequestratore ha perso la vita assieme a un altro degli ostaggi, una 38enne madre di tre figli.

Anche prendendo per buona questa versione della morte del maganer del locale nel centro di Sydney, non è chiaro da dove siano venuti i colpi che hanno causato il decesso della seconda vittima tra gli ostaggi e il ferimento di altri quattro. Il capo della polizia dello stato del Nuovo Galles del Sud, Andrew Scipione, martedì ha preferito non soffermarsi sulla questione, elogiando piuttosto la polizia per avere “salvato molte vite”.

Com’è quasi sempre accaduto in episodi simili più o meno recenti, un’analisi delle circostanze solleva anche in questo caso due riflessioni piuttosto inquietanti. La prima riguarda i precedenti e l’identità del responsabile dell’atto bollato immediatamente come “terroristico”, mentre la seconda è legata alla risposta delle forze di polizia, del governo e dei media ufficiali.

Ancora una volta, per cominciare, il tentacolare apparato di sorveglianza costruito in Australia, come in molti altri paesi, ha fallito nell’impedire a un individuo ben noto alle autorità di portare a termine un gesto eclatante e dalle conseguenze tragiche.

Il responsabile in questo caso si chiamava Man Haron Monis e aveva più di un precedente con la giustizia australiana. Il 50enne di origine iraniana, autoprocalamatosi membro del clero sciita anche se recentemente convertitosi al sunnismo, era infatti in attesa di giudizio in quanto incriminato come co-responsabile dell’assasinio della ex moglie, mentre era stato condannato ai servizi sociali per avere scritto lettere “offensive” a famigliari di soldati australiani morti durante l’occupazione dell’Afghanistan.

Monis viene descritto come un uomo fortemente disturbato e con profondi sentimenti di rivalsa nei confronti dello stato e del sistema giudiziario del paese che gli aveva concesso asilo dopo avere abbandonato l’Iran.

Negli anni scorsi era inoltre apparso in alcuni articoli e servizi della stampa australiana. Nel 2001, ad esempio, la ABC lo aveva intervistato presentandolo come un rifugiato con inclinazioni moderate e costretto a lasciare la famiglia in Iran a causa di presunte persecuzioni. Sulla stampa alternativa on-line, poi, circola già il sospetto che l’uomo fosse stato in qualche modo utilizzato in passato dal governo in una più o meno deliberata campagna di discredito della Repubblica Islamica.

Qualche anno più tardi, in ogni caso, Monis - conosciuto anche col nome di Manteghi Boroujerdi - sarebbe stato segnalato alle autorità come persona sospetta dai leader della comunità sciita australiana, soprattutto perché si spacciava come membro del clero non avendone i titoli per farlo.

In maniera ancora più interessante, la stampa iraniana ha riportato un commento di una portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, secondo la quale il suo governo avrebbe più volte messo in guardia Canberra circa “i precedenti e le condizioni mentali e psicologiche” di Monis/Boroujerdi.

In definitiva, il ritratto di quest’ultimo che è uscito finora smentisce categoricamente l’ipotesi che egli rientri nella categoria dei cosiddetti “lupi solitari”. Questa definizione è assegnata dai governi che si definiscono impegnati nella lotta alle minacce terroristiche entro i propri confini a soggetti impossibili da individuare e da tenere sotto controllo da parte delle forze di polizia, poiché non fanno parte di organizzazioni fondamentaliste ma agiscono in manier autonoma, sia pure con motivazioni politiche o ideologiche, dopo essere passati attraverso un percorso indipendente di radicalizzazione.

Se possibili legami di Monis con i servizi di intelligence australiani, dopo che egli stesso aveva sostenuto di avere avuto contatti con quelli del suo paese d’origine, sono al momento soltanto ipotizzabili, quel che appare evidente è che l’azione di lunedì a Sydney è stata tutt’al più condotta per motivi solo esteriormente riconducibili allo Stato Islamico (ISIS), di cui l’uomo si sarebbe definito membro nel corso del sequestro all’interno del caffè Lindt.

Ciononostante, la vicenda è stata prevedibilmente descritta come l’ennesima prova che il “terrorismo” jihadista è ormai approdato in maniera inesorabile anche in Australia, con la logica conseguenza che il governo deve disporre della piena facoltà di implementare tutte le misure necessarie per proteggere la sicurezza dei propri cittadini.

E infatti, quello che avrebbe dovuto più logicamente essere trattato come un caso di polizia, sia pure grave, è stato subito trasformato in una vera e propria crisi nazionale, con l’attivazione dei protocolli “anti-terrorismo” e la ripetuta apparizione in diretta televisiva del primo ministro, Tony Abbott, per rassicurare gli australiani e aggiornarli sulla situazione all’interno del caffè di Sydney.

Innanzitutto, la città è stata letteralmente invasa dalla polizia che ha chiuso al traffico interi quartieri del centro, così come uffici pubblici e privati. Secondo le procedure previste in casi simili, misure estreme sono state adottate anche in altre città del paese, anche se non erano stati segnalati allarmi né complici di Monis.

Sia i giornali australiani conservatori - in primo luogo del gruppo Murdoch - sia quelli teoricamente “liberal” sono apparsi poi uniti nell’appoggiare la versione del governo, dando per scontate informazioni per nulla provate, come le effettive simpatie del sequestratore per l’ISIS, o chiedendo misure ancora più lesive della privacy e dei diritti civili per fronteggiare la “minaccia del terrorismo” che sembra incombere sull’Australia.

Eventi come quello di questa settimana a Sydney, in definitiva, vengono puntualmente sfruttati dalla classe dirigente in Europa come in Nordamerica o in Oceania proprio per accelerare l’introduzione di norme sempre più anti-democratiche sul controllo della popolazione, salvo poi scoprire ogni volta che i responsabili di atti di “terrorismo” riescono a sfuggire miracolosamente alla rete di sorveglianza creata dalle autorità pur avendo avuto quasi sempre precedenti con la giustizia.

L’elenco di casi simili è lunghissimo e solo poche settimane fa se ne aveva avuto un esempio sempre in Australia, guarda caso nel pieno del lancio dell’avventura bellica in Iraq e in Siria ufficialmente contro l’ISIS, a cui le forze armate di Canberra partecipano al fianco di Washington. A settembre, cioè, la polizia australiana aveva condotto una delle più imponenti operazioni di “anti-terrorismo” mai viste nel paese, con centinaia di agenti impegnati in varie città a perquisire abitazioni, arrestare e interrogare sospettati di avere legami con l’ISIS e altre formazioni integraliste.

Lo stesso premier Abbott aveva giustificato l’operazione con il pericolo che simpatizzanti o membri dell’ISIS stessero progettando rapimenti ed esecuzioni sommarie sul suolo australiano. Il risultato dell’intera operazione fu però l’incriminazione di una sola persona con dubbie accuse di reati legati al “terrorismo”.

Il clima di isteria creato ad arte in Australia ha permesso così al governo conservatore, sempre più impopolare a causa delle ripetute misure di austerity messe in atto, di fare approvare dal parlamento una serie di provvedimenti ad hoc.

Le leggi da poco introdotte intendono ad esempio impedire a cittadini australiani di recarsi in Siria o in altri paesi interessati dal fondamentalismo islamico tramite la revoca o la confisca dei passaporti. Un’altra misura prevista criminalizza invece “l’incitamento al terrorismo” sui social media ed è scritta in maniera sufficientemente ampia da includere qualsiasi vaga “minaccia” alla sicurezza o alla stabilità dello stato.

Questa piega preoccupante, come già ricordato, non riguarda solo l’Australia. Vari paesi europei hanno anch’essi deciso la revoca arbitraria dei passaporti dei sospettati di terrorismo, cercando di giustificare questa misura anti-democratica per lo più con arresti di cittadini di fede musulmana descritti come sul punto di unirsi all’ISIS in Medio Oriente, come è accaduto proprio in questi giorni in Francia.

Un altro partner speciale degli Stati Uniti in questa guerra a un’organizzazione fondamentalista che è in sostanza il prodotto delle stesse trame occidentali è infine il Canada. A Ottawa, nel mese di ottobre, l’azione di un altro individuo con una storia di emarginazione e precedenti penali era giunta nel pieno del dibattito su una nuova legge che avrebbe ampliato i poteri delle autorità in materia di “anti-terrorismo” ed era stata seguita dalle stesse reazioni di politici e media e dalle stesse spropositate misure delle forze di polizia osservate questa settimana a Sydney.

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