Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Il sesto e penultimo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama, trasmesso in diretta TV nella serata di martedì, è stato caratterizzato da una marcata accentuazione dei toni fintamente progressisti di un presidente che, ormai svincolato da qualsiasi pressione politica, nei prossimi due anni sarebbe intenzionato a sfidare il Congresso repubblicano per la difesa della “middle-class” americana in affanno.

Questa, per lo meno, sembra essere la versione ufficiale proposta dai media “liberal” negli Stati Uniti, allo scopo sostanzialmente di occultare il significato di un evento annuale ripetuto stancamente e sempre più all’insegna dell’inganno e della distorsione della realtà economica e sociale del paese.

Per Obama, in sostanza, “lo spettro della crisi” sarebbe ormai “passato”, mentre, ricorrendo alla consueta assurda retorica che caratterizza i suoi interventi pubblici, ha proclamato che, “con l’economia in crescita, il deficit in diminuzione, un’industria fiorente e l’esplosione della produzione energetica, siamo usciti dalla recessione ancora più liberi di qualsiasi altra nazione del pianeta per scrivere il nostro futuro”.

Ad ascoltare il tentativo di Obama di delineare la sorta di paradiso che la società USA sarebbe diventata sotto la guida della sua amministrazione a sei anni dall’esplosione della crisi economica e finanziaria, sembra quasi impossibile che i dati reali parlino di oltre 30 milioni di americani senza lavoro o con situazioni di impiego precarie.

Ugualmente, il brulicare di attività economiche descritto dal presidente si scontra con la costante diminuzione delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti negli ultimi sette anni, ma anche con l’aumento dei livelli di povertà, soprattutto tra i minori, e addirittura dell’insicurezza alimentare che interessa oggi più del 16% della popolazione americana.

Obama e l’intera classe dirigente d’oltreoceano sono ben consapevoli delle enormi tensioni sociali che si stanno accumulando a causa delle conseguenze delle loro politiche, così che i toni populisti si fanno sempre più evidenti, com’è apparso chiaro dalle proposte che si sono fatte strada nei discorsi sullo stato dell’Unione degli ultimi anni.

Anche quest’anno, così, Obama non ha rinunciato a delinare un immaginario piano programmatico sul quale il Congresso dovrebbe lavorare nei prossimi mesi. Il campionario pseudo-progressista del presidente prevede in particolare la formazione gratuita di due anni nei cosiddetti “community college” per gli studenti a basso reddito e rimborsi fiscali per la classe media e per coloro che frequentano l’università.

Le risorse necessarie, nella realtà parallela ipotizzata da Obama, arriverebbero da una riforma del fisco che dovrebbe penalizzare i redditi più alti e garantire entrate per 320 miliardi di dollari in dieci anni. L’aliquota più alta sui “capital gains”, ad esempio, salirebbe dall’attuale 23,8% al 28%, mentre verrebbe implementata una tassa sulle transazioni finanziarie degli istituti che dispongono di “asset” pari ad almeno 50 miliardi di dollari.

Com’è facilmente prevedibile, e come Obama sa benissimo, nessuna di queste o altre proposte simili ha qualche possibilità di essere approvata dal Congresso, dove i leader repubblicani hanno infatti già respinto qualsiasi possibilità di valutare anche una microscopica redistribuzione delle ricchezze verso la base della piramide sociale.

Nell’atteggiarsi a paladino della “middle-class”, nel suo discorso il presidente americano non ha inoltre spiegato le ragioni per cui iniziative come quelle proposte martedì non siano state introdotte negli anni scorsi, quando il suo partito disponeva di una solida maggioranza in entrambi i rami del Congresso. Obama, in realtà, ha presieduto a un deliberato processo di impoverimento forzato dei lavoratori e della classe media, dettato dalla necessità di difendere le posizioni del capitalismo americano, i cui rappresentanti si sono enormemente arricchiti nonostante la crisi.

In un gioco delle parti tipico della politica di Washington, come sempre, Obama sceglie deliberatamente di proprorre misure di stampo vagamente progressista proprio perché inattuabili. L’assenza di costrizioni o vincoli elettorali a due anni dalla fine del suo secondo e ultimo mandato di cui hanno parlato i giornali americani va dunque intesa in questo senso.

L’inquilino della Casa Bianca, cioè, di fronte al crescente malcontento che pervade la società USA si ritrova quasi costretto ad attaccare i ricchi e a prendere le parti delle classi in difficoltà, senza però il rischio di doversi realmente impegnare per le proposte avanzate. Una battaglia concreta sull’adozione di misure a favore delle classi più disagiate sarebbe infatti impossibile per un politico americano chiamato ad affrontare un’elezione, dove a decidere sono sempre più quei poteri forti a cui anche i democratici fanno da tempo riferimento.

Piuttosto, in questo modo Obama offre al suo partito una base - sia pure soltanto retorica - sulla quale costruire l’opposizione al Partito Repubblicano, fin troppo facilmente attaccabile come il partito dei ricchi, in preparazione del prossimo appuntamento con le urne nell’autunno del 2016.

In altri passaggi del suo discorso, al contrario, Obama ha lanciato messaggi agli stessi repubblicani per una possibile convergenza tra la maggioranza al Congresso e la Casa Bianca. Le questioni che potrebbero ottenere l’appoggio di entrambi sono soprattutto una nuova “autorizzazione all’uso della forza” in Medio Oriente, l’attribuzione al presidente di poteri speciali per la sottoscrizione di trattati di libero scambio e una modifica del sistema fiscale riservato alle aziende private per diminuire le tasse a loro carico.

Obama, minacciando il ricorso al diritto di veto, ha però ribadito la sua ferma difesa di iniziative gradite da varie sezioni della comunità degli affari, a cominciare dalla “riforma” del sistema sanitario, che beneficia il settore assicurativo privato, e la modesta sanatoria degli immigrati irregolari, decisa recentemente con un decreto presidenziale e accolta in maniera positiva da quelle imprese che contano su manodopera straniera a bassissimo costo.

Al di là delle solite tirate sull’eccezionalità della democrazia americana e sulla promozione dei diritti umani, oltretutto a poche settimane dalla diffusione di un devastante rapporto del Congresso sulle torture della CIA, un’importanza particolare nel discorso sullo stato dell’Unione l’hanno avuta infine le questioni di politica estera.

Quella dei rapporti con Cuba, su tutte, aveva suscitato parecchie aspettative dopo la decisione nel mese di dicembre di ristabilire i rapporti diplomatici con l’isola caraibica. Alla vigilia di uno storico vertice bilaterale tra le delegazioni dei due paesi all’Avana, Obama ha difeso il cambiamento di rotta della sua amministrazione, spiegando la necessità che il Congresso agisca per mettere fine all’embargo che dura da oltre mezzo secolo.

Anche in questo caso, il presidente ha tenuto a sottolineare il presunto impegno per i “valori democratici” degli Stati Uniti e la volontà di “estendere la mano dell’amicizia al popolo cubano”, come se fossero realmente queste le ragioni che hanno motivato la recente svolta diplomatica e non, principalmente, le mire del business americano su un paese in cambiamento, dove Washington rischia di perdere terreno nei confronti dei concorrenti asiatici ed europei.

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