USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

La discussa apparizione del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, di fronte a una sessione congiunta del Congresso americano nella giornata di martedì, ha prevedibilmente aggravato le tensioni già esistenti tra la Casa Bianca e il governo di Tel Aviv. L’obiettivo principale dell’attacco frontale a Obama del primo ministro è stato l’accordo in fase di negoziazione tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran, attorno al quale ruota probabilmente il futuro assetto strategico dell’intero Medio Oriente e su cui si stanno scontrando sempre più gli interessi di Stati Uniti e Israele.

Ancora prima, però, il discorso di Netanhya ha dato la conferma del livello di prostrazione a Israele e alle sue “lobbies” della gran parte del Congresso americano. Solo poche decine di deputati e senatori democratici hanno disertato l’evento, mentre i presenti hanno riservato al premier svariate “standing ovations”.

L’opinione comune dei media d’oltreoceano è che l’intervento di Netanyahu renderà ancora più difficile il compito di Obama nel fare accettare al Congresso un eventuale accordo con l’Iran, nel caso dovesse essere percepito come troppo “favorevole” alla Repubblica Islamica.

Infatti, subito dopo il discorso di Netanyahu sono giunti dal Congresso segnali della possibile ripresa in aula a breve della discussione su un pacchetto legislativo che potrebbe prevedere nuove sanzioni economiche contro l’Iran oppure l’obbligo di sottoporre qualsiasi eventuale accordo al voto di Camera e Senato.

Le notizie peggiori per Obama potrebbero arrivare proprio dai suoi colleghi di partito, alcuni dei quali, dietro insistenza della Casa Bianca, si erano recentemente impegnati a non portare in aula il provvedimento sulle sanzioni fino alla fine di marzo, in attesa degli sviluppi delle trattative diplomatiche.

Molti democratici sono d’altra parte ascrivibili alla fazione dei “falchi” in merito all’Iran e l’intervento di Netanyahu, assieme all’aggressiva attività delle “lobbies” israeliane a Washington, minaccia di far coagulare una maggioranza trasversale al Congresso, potenzialmente in grado di neutralizzare l’eventuale veto di Obama su qualsiasi iniziativa di legge che ostacoli le trattative in atto sul nucleare di Teheran.

Netanhyahu, in ogni caso, martedì non ha rivelato dettagli segreti delle trattative in atto tra Teheran e i P5+1 per fare ulteriori pressioni sui membri del Congresso, come temeva la Casa Bianca, ma ha deciso di ricorrere alla consueta propaganda anti-iraniana e a tirate islamofobe.

Apparentemente nessuno dei politici o dei giornalisti radunati al Congresso sembra poi avere notato la colossale ipocrisia del loro ospite, impegnato a dipingere un quadro apocalittico per il pianeta a causa dell’inesistente programma nucleare militare iraniano pur essendo alla guida di un paese che detiene segretamente un numero imprecisato di testate atomiche, mette in atto impunemente politiche criminali nei confronti dei palestinesi e ha condotto guerre o operazioni militari illegali contro molti dei paesi vicini.

Un’analisi pubblicta mercoledì sul New York Times ha rilevato come l’invito fatto a Netanyahu dallo “speaker” repubblicano della Camera dei Rappresentanti, John Boehner, dietro le spalle della Casa Bianca sia risultato in uno spettacolo decisamente insolito, nel quale “un leader straniero ha parlato di fronte ai membri del Congresso per attaccare strenuamente le politiche di un presidente americano in carica”.

“Così facendo”, ha aggiunto il commento del Times, “Netanyahu ha sostanzialmente invitato deputati e senatori a porre la loro fiducia in lui piuttosto che in Obama per impedire all’Iran di costruire un ordigno nucleare”.

Alcuni commenti al discorso di Netanyahu provenienti da esponenti dell’amministrazione Obama hanno rilevato come quest’ultimo non abbia offerto alcuna proposta alternativa ragionevole a un accordo pacifico. Nell’ottica del premier israeliano, l’unica soluzione accettabile sembra essere piuttoto quella di ottenere una capitolazione completa da parte di Teheran e ciò comporta, inevitabilmente, la guerra o il cambio di regime.

Lo smantellamento completo del programma nucleare iraniano è d’altra parte al centro delle richieste di Netanyahu, pur sapendo che un’eventuale posizione intransigente su questo aspetto da parte di Washington determinerebbe una rottura dei negoziati e riporterebbe le lancette degli orologi indietro di almeno un paio d’anni.

La paranoia di Netanyahu nei confronti dell’Iran è legata a varie questioni, a cominciare da quella immediata di natura elettorale. Il 17 marzo prossimo si terrà in Israele il voto anticipato e per la prima volta da molti anni il Likud di Netanyahu rischia di finire all’opposizione, almeno secondo alcuni sondaggi.

L’agitazione della minaccia “esistenziale” rappresentata dall’Iran per lo Stato ebraico è dunque essenziale al fine di promuovere le credenziali di Netanyahu in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, lo spostamento dell’attenzione degli elettori verso la situazione internazionale risulta utilissimo a un governo di destra che ha presieduto a un lungo periodo caratterizzato dal grave deterioramento delle condizioni economiche di lavoratori e classe media.

L’altro fattore principale che determina la visione catastrofica di Netanyahu in relazione a un possibile accordo sul nucleare ha a che fare con la necessità di conservare l’assoluta superiorità militare di Israele in Medio Oriente, così da consentire a questo paese di imporre con la forza i propri interessi e i propri metodi sui rivali nella regione.

L’irriducibile avversione di Netanyahu per l’Iran è perciò connessa al ruolo fondamentale che Teheran svolge nell’asse della resistenza anti-israeliana - e anti-americana - attraverso la partnership, il finanziamento e la fornitura di armi o assistenza militare al regime siriano, a Hezbollah in Libano e, sia pure tra le divergenze circa i rapporti con Damasco, a Hamas nella striscia di Gaza.

Questi obiettivi strategici di Israele si stanno scontrando però sempre più con quelli di più ampio respiro dell’amministrazione Obama in Medio Oriente. Se la minaccia di ricorrere alla forza per piegare Teheran rimane sul tavolo a Washington, almeno a parole, una parte della classe dirigente americana ha chiaramente scelto di cercare il dialogo con l’Iran, non tanto per raggiungere un accomodamento disinteressato che rispetti le ambizioni e l’indipendenza di questo paese, bensì come percorso più opportuno per promuovere i propri interessi sullo scacchiere internazionale.

In altre parole, per gli USA un confronto militare con la Repubblica Islamica risulterebbe controproducente, soprattutto alla luce delle rivalità in aumento con Cina e Russia, dal momento che finirebbe per creare ancora maggiore instabilità in una regione già infiammata dalla loro stessa dissennata politica estera. Più utile in questo momento appare invece un accordo con la leadership moderata installatasi a Teheran in seguito all’elezione del presidente Rouhani.

Una simile strategia, com’era prevedibile, sta producendo profonde divisioni all’interno dell’establishment politico americano, dove i repubblicani e una buona fetta di democratici gradirebbero un ritorno puro e semplice ai rapporti esistenti prima del 1979 tra Washington e Teheran.

La progressiva divergenza degli interessi strategici di Stati Uniti e Israele in Medio Oriente è dunque la causa della crescente freddezza, per non dire ostilità, tra l’amministrazione Obama e quella di Netanyahu, il cui discorso di martedì e tutti gli strascici polemici che ne sono seguiti appaiono soltanto come la più recente e clamorosa manifestazione.

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