USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Michele Paris

La conquista dell’importante città afgana di Kunduz da parte dei Talebani nella giornata di lunedì ha rappresentato una grave umiliazione sia per il governo di Kabul sia per le forze di occupazione guidate dagli Stati Uniti. Nonostante quasi 14 anni di guerra, centinaia di migliaia di truppe impiegate e di dollari spesi per sostenere un regime-fantoccio filo-occidentale, per la prima volta dal 2001 i Talebani sono riusciti a strappare al controllo governativo uno dei capoluoghi delle province in cui è suddiviso il paese centro-asiatico.

L’azione delle forze talebane ha ancora una volta messo in luce in maniera impietosa lo stato delle forze di sicurezza afgane, armate e addestrate dall’Occidente. Queste ultime potevano contare infatti su circa tremila uomini a Kunduz, ma sono state sopraffatte da poche centinaia di guerriglieri integralisti.

Da qualche tempo, la città settentrionale che conta 300 mila abitanti era stata circondata dai Talebani, i quali, dopo avere “liberato” le aree del centro, hanno costretto i soldati dell’esercito regolare a rifugiarsi presso l’aeroporto, a sua volta teatro di un’accesa battaglia in queste ore. Anche la primavera scorsa i Talebani avevano tentato di prendere Kunduz, ma in più di un’occasione erano stati respinti dall’esercito in collaborazione con alcune milizie locali.

La notizia del rovescio ha subito attivato i vertici delle forze NATO di occupazione, costretti a inviare truppe per difendere l’aeroporto di Kunduz e a cercare di riconquistare l’intera città. Il deteriorarsi della situazione ha fatto registrare così l’aperta violazione dei termini dell’intesa tra Kabul e Washington, secondo la quale le rimanenti forze di occupazione dal primo gennaio di quest’anno non possono essere più impiegate in operazioni di combattimento.

Un portavoce della “coalizione” occupante ha però sostenuto che l’intervento a fianco dell’esercito afgano rientrerebbe negli incarichi tuttora consentiti alle forze NATO, poiché l’operazione in corso sarebbe di natura “difensiva”. Secondo un ufficiale delle forze armate locali, a Kunduz starebbero combattendo un centinaio di membri delle Forze Speciali USA, assieme a un certo numero di soldati americani e di altri paesi non meglio identificati.

Tra martedì e mercoledì, poi, le forze NATO hanno condotto alcune incursioni aeree contro i Talebani, anche se il presidente afgano, Ashraf Ghani, ha escluso per il momento una campagna sostenuta di bombardamenti aerei a causa del rischio di vittime civili in un’area urbana come quella di Kunduz.

Già martedì sono circolate notizie relative alla riconquista di vari edifici strategici della città da parte delle forze governative. Un ufficiale americano sentito martedì dal Washington Post ha allo stesso modo assicurato che i Talebani saranno cacciati da Kunduz in poche settimane e che l’operazione avrebbe solo uno scopo propagandistico per dimostrare la loro resistenza.

Altre fonti, soprattutto afgane, non sembrano essere però altrettanto ottimiste. Un funzionario governativo residente a Kunduz, ad esempio, ha avvertito che la riconquista della città richiederà un’operazione su vasta scala, cosa non agevole, per lo meno senza il supporto attivo delle forze NATO, viste le condizioni in cui versa l’esercito di Kabul.

Anzi, la stampa americana ha avvertito mercoledì del pericolo di un effetto domino, con la vicina provincia di Baghlan in pericolo di cadere nelle mani dei Talebani. Qui, la popolazione avrebbe cominciato ad abbandonare le proprie abitazioni nel timore che il governo possa perdere il controllo. Per il momento, i Talebani hanno consolidato le loro posizioni nel nord della provincia, ostacolando seriamente il transito dei rinforzi dell’esercito diretti a Kunduz.

Se i Talebani al loro ingresso a Kunduz lunedì hanno annunciato che non ci sarebbero stati saccheggi o esecuzioni sommarie, il bilancio in pochi giorni è già significativo, con più di 30 morti e oltre 200 feriti, di cui la gran parte civili.

La beffa patita da Kabul e dalla NATO a inizio settimana è resa ancora più pesante dal peso strategico di Kunduz, una località situata in un’importante area agricola dell’Afghanistan e crocevia tra Asia orientale e occidentale, ma anche settentrionale e meridionale. Inoltre, il blitz è giunto a poche settimane dalla diffusione della notizia della morte del Mullah Omar che, secondo molti osservatori, avrebbe dovuto avere effetti negativi sulla resistenza talebana.

La facilità con cui i Talebani sono entrati in città lunedì ha immediatamente scatenato polemiche sia a Kabul sia a Washington. Il governo afgano e il presidente Ghani sono finiti sotto accusa per l’incompetenza del governatore della provincia di Kunduz e delle forze di sicurezza stanziate in quest’area nel nord del paese.

Il gabinetto afgano è d’altra parte estremamente fragile, con una coalizione mediata dagli Stati Uniti che vede la condivisione teorica del potere tra il presidente e il secondo classificato nelle ultime elezioni presidenziali, Abdullah Abdullah. Proprio quest’ultimo, la cui base di potere è tra le etnie Tagika e Hazara nel nord del paese, si trovava alle Nazioni Unite nella giornata di lunedì e nel suo discorso di fronte all’Assemblea Generale ha chiamato in causa il Pakistan, invitando il governo di Islamabad a fare di più per combattere i fondamentalisti che trovano rifugio oltre confine e sferrano i propri attacchi in Afghanistan.

L’occupazione talebana di Kunduz giunge d’altronde in un momento estremamente delicato per l’evoluzione del panorama afgano. Oltre ai riflessi negativi su questo paese delle imprese belliche e delle manovre strategiche americane, a cominciare dal possibile arrivo anche in Afghanistan di un certo numero di guerriglieri dello Stato Islamico (ISIS), a rendere più precaria la situazione è il continuo stallo dei negoziati tra il governo di Kabul e la leadership talebana.

La difficoltà anche ad avviare una qualche discussione è dovuta in buona parte alle esitazioni proprio del Pakistan, i cui dubbi sono legati a questioni strategiche più ampie. Islamabad, anche se fin dal 2001 ha rinunciato ufficialmente ad appoggiare i Talebani, continua a vedere questi ultimi come un’arma per esercitare la propria influenza sul vicino Afghanistan.

Tale questione risulta tanto più scottante alla luce del ruolo sempre più importante giocato a Kabul dall’India, ovvero l’arcirivale del Pakistan. L’impegno di Delhi in Afghanistan è favorito dagli Stati Uniti, impegnati a costruire un’alleanza strategica con l’India nell’ambito dell’offensiva diplomatica e militare volta a isolare la Cina.

Le scelte strategiche dell’amministrazione Obama sembrano dunque far passare in secondo piano l’alleanza già di per sé complicata con il Pakistan, generando a Islamabad sospetti e inquietudini che, a loro volta, stanno determinando, da un lato, un rafforzamento dei tradizionali legami con la Cina e, dall’altro, un disinteresse nel processo di pace in Afghanistan.

Negli Stati Uniti, infine, la caduta di Kunduz ha ridato prevedibilmente fiato ai “falchi” dell’interventismo a stelle a strisce. I leader repubblicani al Congresso, in particolare, hanno in primo luogo criticato la decisione di Obama di procedere con il ritiro delle forze di combattimento dall’Afghanistan a fine 2014.

Secondo questa prospettiva, la disastrosa situazione del paese occupato dal 2001 sarebbe cioè la conseguenza di un impegno insufficiente e non della devastazione provocata da quattordici anni di guerra per sottomettere un’intera popolazione agli interessi dell’imperialismo americano.

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