Ucraina, l’illusione delle armi

di Michele Paris

L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Fabrizio Casari

Putin non scherza affatto. I raid aerei dell’aviazione russa in Siria colpiscono le postazioni islamiste e permettono all’esercito lealista di ricompattare i reparti. Obiettivo dei Sukhoy di Mosca sono sia l’Isis, che controlla la zona ad Est di Homs, sia le bande di Al-Nusra, frazione dissidente di al-Queda, addestrate dalla CIA, come ammette il senatore McCain. McCain sa di cosa parla, non solo per essere stato candidato alla presidenza USA, ma per essere l’incaricato di Obama per sovrintendere le operazioni di intelligence e militari in Siria.

Capziosa la presunta distinzione che Washington propone tra ISIS e Al-Nusra, le cui bande sono state protagoniste sin dall’inizio della guerra in Siria. L’irruzione dell’Isis sullo scenario siriano e iracheno ha certamente ridimensionato la centralità militare e politica degli islamisti al soldo della Casa Bianca, messa ulteriormente in crisi dalle frizioni interne al sottobosco islamista.

Ma questa dinamica, tutta interna al teatro di guerra, non modifica l’essenza della partecipazione di Al-Nusra nel conflitto, così come quella del cosiddetto Esercito libero siriano. Quest’ultimo, che non è un esercito (conta pochi aderenti) non è libero (dipende in tutto dall’occidente) e non è siriano, dal momento che vi operano diversi altri attori manovrati dall’Arabia Saudita) è stato un’invenzione politico-militare, così come l’Osservatorio sui diritti umani in Siria, con sede a Londra e foraggiato dal Mi-5 britannico, è stato il suo portavoce. Sono nomi diversi e frazioni diverse di una rete islamista voluta e sostenuta dall’Occidente per scalzare il governo siriano.

Per certi versi bizzarra la protesta di Washington che lamenta l’attacco agli uomini addestrati e pagati dalla CIA, come se Langley fosse un caposaldo dei diritti umani e della legittimità internazionale. Ma il frastuono che Francia (che bombarda senza ricevere proteste) e Stati Uniti alzano contro ipotetici oppositori siriani che verrebbero colpiti da Mosca allo scopo di rafforzare Assad, ha comunque il pregio di ricordare la verità sull’origine del conflitto.

Che si dimostra voluto, organizzato e finanziato da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dalla monarchia saudita. Così come avvenuto in Libia e in Iraq, il rafforzamento delle organizzazioni terroristiche di stampo sunnita è stato il cuore dell’iniziativa politica e diplomatica di diverse capitali occidentali. Lo scopo era l’accerchiamento di Teheran e le vie per le quali si è proceduto sono state diverse, tutte destinate ad azzerare la catena di alleanze di Teheran in Medio Oriente; ovvero la Siria di Assad, gli Hezbollah libanesi, Hamas a Gaza, il governo sciita a Baghdad.

Obiettivo ultimo era quello di assegnare a Ryad il comando politico e militare sul Golfo e in Medio Oriente, che nella sconfitta sciita vedeva sia affermarsi la leadership religiosa sul mondo islamico che – più prosaicamente - quella economica, dal momento che l’isolamento di Teheran, la fine della Libia di Gheddafi, garantivano al petrolio delle monarchie del Golfo la supremazia assoluta sui mercati.

Il saldo positivo dell’operazione ha riguardato solo l’Irak, mentre sia Hezbollah che la Siria si sono dimostrati ossi decisamente duri da rodere. Il mutare dello scenario, che ha visto l’Isis, inventato a tavolino dagli Stati Uniti all’identico scopo rendersi autonomo e in qualche modo rivoltarsi contro il suo creatore (cosa già successa peraltro in Afghanistan con Mujaheddin e al-Queda).

Il progetto di califfato, sostenuto con armi e denaro dall’Arabia Saudita, si è andato via via consolidando e rafforzando e la fine del controllo di Washington su Al-Baghdadi, che nel frattempo ha riempito di orrore e minacce il Medio Oriente e lo stesso Occidente, ha obbligato Obama a cambiare rotta.

Nel frattempo, il raggiungimento dell’accordo con l’Iran ha reso non più strategico il suo ruolo per le strategie statunitensi; la riprovazione mondiale verso l’agire dei macellai del califfo ha reso prioritario la presa di distanza americana e le minacce dell’Isis anche contro gli USA hanno completato il quadro della rottura.

Ci si potrebbe domandare come sia possibile che in quattro mesi gli Stati Uniti non abbiano chiuso la partita con Al-Baghdadi. Come sia possibile, cioè, che un esercito privo di aviazione e contraerea, di mezzi corazzati e intelligence militare, sia riuscito a mantenere sostanzialmente indenni i suoi reparti.

La risposta non è difficile, per quanto amara. Gli Stati Uniti hanno deciso di non schiantare l’Isis, non volendo azzerare militarmente le forze che ritengono possano in qualche modo rivelarsi funzionali in caso di cambiamenti repentini sul terreno.

Prova ne sia che la reazione militare statunitense contro l’Isis è stata a dir poco blanda se paragonata alla storia militare recente delle guerre a stelle e strisce. Basta mettere a confronto quantità e qualità delle operazioni aeree con i precedenti impegni dell'America nelle guerre in Medio Oriente e nei Balcani.

Durante la prima guerra del Golfo, gli Stati Uniti effettuavano in media 1.125 attacchi aerei al giorno. In Kosovo, circa 135 al giorno. Nel 2003, sempre in Iraq, nella campagna chiamata "colpisci e terrorizza" i raid Usa erano in media 800 al giorno. Contro l’Isis, invece, solo 14 al giorno.

Troppo pochi per sperare di fermare il Califfo in marcia verso Baghdad. Non solo. Secondo il senatore John McCain, “il 75% dei piloti tornano alla base senza aver utilizzato tutta la potenza di fuoco, e questo a causa di ritardi nella catena di comando". Gli stessi piloti USA hanno denunciato che "per ricevere l’autorizzazione ad attaccare un obiettivo Isis, sono necessari anche 60 minuti". Un'enormità che avrebbe fatto sfuggire più di una volta l'obiettivo da centrare, trattandosi soprattutto di unità militari di fanteria motorizzata.

Gli USA sembrano quindi non voler annientare l’Isis anche perché probabilmente ritengono che avere un attore di quel calibro possa rivelarsi come uno straordinario strumento di pressione sull’universo sciita, sia per tenere viva la minaccia militare su Hezbollah, sia nel caso Teheran non confermi le sue intenzioni riconciliatorie o cerchi di allungare le mani sull’Irak.

I russi, invece, attaccano sul serio e colpiscono. Naturalmente fanno il loro interessi. Intendono difendere le basi militari di Latakia (aerea), quella di Jableh, dove hanno dei sottomarini, e il porto di Taurus, dove Mosca ha una sua base navale. Eredità di un’alleanza strategica della ex Unione Sovietica con la Siria di Assad padre, il legame tra Mosca e Damasco non è mai venuto meno e la presenza militare russa (unica al di fuori dei suoi confini) è questione che Putin non intende discutere né sul piano politico e diplomatico, men che mai su quello militare.

Mosca peraltro, che è a conoscenza della presenza di circa tremila combattenti di origine caucasica nelle file del califfato, ha già dimostrato nella guerra in Afghanistan prima e in Cecenia poi come ritiene di dover affrontare l’espansionismo militare islamista.

Putin ha quindi proposto a Stati Uniti ed Europa una coalizione internazionale per aggredire la minaccia del califfato, sfidando le capitali occidentali a dimostrare militarmente quanto affermano politicamente. Lo Zar, inoltre, non fa mistero di essere disposto a sporcarsi le mani in Siria anche tenendo a mente un miglioramento complessivo delle relazioni con l’Occidente che porti a breve-medio termine a riconsiderare le sanzioni sull’Ucraina.

Ma lo sfondo sul quale la strategia di Putin vuole inserirsi è più ampio; prevede un ruolo di primo piano di Mosca nella cogestione della governance internazionale, non riconoscendo ai soli Stati Uniti il ruolo di gendarme unico mondiale.

Ruolo, quello degli USA, ormai in discussione per manifesta incapacità, visti i disastri prodotti nei diversi scenari internazionali. E, comunque, non più corrispondente ad un mondo multipolare nel quale l’irruzione nella scena economica e politica di interi continenti non può rimanere senza un’adeguata compartecipazione alla governante globale. Questo, prima ancora che la sorte dei suoi uomini in Siria, preoccupa Washington.

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