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di Michele Paris

La crisi esplosa tra Teheran e Riyadh in seguito all’esecuzione del leader religioso sciita Nimr al-Nimr da parte del regime saudita ha fatto segnare una nuova escalation in questo avvio di settimana. Dopo le durissime critiche dell’Iran e l’assalto all’ambasciata del regno Wahabita a Teheran, l’Arabia Saudita ha infatti interrotto i rapporti diplomatici con il proprio principale rivale nella regione.

L’Iran, da parte sua, attraverso il ministero degli Esteri ha puntato il dito contro il regno ultra-conservatore, accusandolo di avere usato l’episodio dell’ambasciata come un pretesto per alimentare le tensioni. In precedenza, com’è noto, l’ayatollah Ali Khamenei aveva tuonato contro Riyadh e invocato la “vendetta divina” sulla casa regnante sunnita per la decapitazione di Nimr, oppositore e leader della minoranza sciita oppressa che vive in Arabia Saudita.

Assieme al religioso erano stati messi a morte in maniera barbara altri tre cittadini sciiti del regno, di cui uno minorenne ai tempi in cui aveva commesso il presunto crimine costatogli la condanna. La loro colpa era stata quella di avere partecipato alle manifestazioni di protesta contro il regime andate in scena nel 2011 nelle provincie orientali a maggioranza sciita.

Secondo i famigliari degli accusati e svariate organizzazioni a difesa dei diritti umani, nonché coerentemente con il livello di civiltà del sistema “giudiziario” saudita, i condannati avevano subito diversi abusi, tra cui torture, prima di essere sottoposti a processi-farsa dall’esito scontato fin dall’inizio.

Oltre ai quattro condannati di fede sciita, il boia saudita ha inaugurato in maniera sanguinosa il nuovo anno con altre 43 esecuzioni, in questo caso tutte di sunniti accusati di avere partecipato all’organizzazione di attentati qaedisti sul territorio del regno tra il 2003 e il 2006.

Il raccapricciante spettacolo delle esecuzioni di massa in contemporanea di sciiti e sunniti è servito all’Arabia Saudita per identificare qualsiasi minaccia al potere della casa al-Saud come un atto di terrorismo. Infatti, nell’annunciare domenica scorsa l’interruzione delle relazioni diplomatiche con l’Iran, il ministro degli Esteri del regno, Adel al-Jubeir, aveva singolarmente accusato Teheran di voler destabilizzare la regione creando “celle terroristiche” in Arabia Saudita, il cui regime e gli ambienti ad esso collegati, piuttosto, sono i principali finanziatori e sostenitori del terrorismo sunnita in Medio Oriente.

La condanna e l’esecuzione di Nimr, inoltre, hanno rappresentato un messaggio ben poco rassicurante per la minoranza sciita, che rappresenta circa il 15% della popolazione saudita, affinché sia chiaro che non sarà tollerata alcuna minaccia alla stabilità del regno.

La decisione di giustiziare i condannati accusati di avere fatto parte di Al-Qaeda sembra rientrare invece nello sforzo di impedire il dilagare della minaccia terrorista all’interno dei confini sauditi. In altre parole, il regime di Riyadh si ritrova a fare i conti con il rischio di attentati sul proprio territorio per mano di quelle forze fondamentaliste che esso stesso promuove e utilizza come arma della propria politica estera in Medio Oriente, a cominciare dalla Siria.

Il caos provocato altrove da queste forze minaccia sempre più di espandersi alla stessa Arabia Saudita, da dove si risponde con metodi che, inevitabilmente, riflettono il comune referente ideologico-religioso del regime e degli stessi fondamentalisti sunniti, ovvero il fanatismo Wahhabita.

Per quanto riguarda i riflessi internazionali, come ha sostanzialmente fatto notare la diplomazia iraniana, la condanna a morte di Nimr non è altro che una provocazione calcolata allo scopo di alimentare le tensioni e le divisioni settarie in una regione già attraversata da numerosi focolai di conflitto.

In maniera tutt’altro che imprevedibile, al di là delle recriminazioni di Riyadh, il gesto barbaro che ha aperto l’anno in Arabia Saudita ha infatti suscitato le ire delle popolazioni sciite e dei leader politici e religiosi anche in Iraq, Libano e altrove.

La provocazione del regime mira probabilmente a far saltare gli sforzi diplomatici, a cui Riyadh sta nominalmente partecipando, per una soluzione pacifica in Siria, in modo da rilanciare la guerra per il cambio di regime a Damasco, dove il primo sponsor di Assad, oltre alla Russia, risulta essere appunto l’Iran.

L’inserimento della vicenda dello sceicco Nimr e degli altri tre sciiti giustiziati nel più ampio scenario mediorientale è evidente anche dal fatto che, pressoché in concomitanza con le decapitazioni, la casa regnante saudita ha messo fine alla tregua in essere nello Yemen. In questo paese, l’Arabia Saudita sta combattendo una guerra sanguinosa contro i “ribelli” Houthi, anch’essi di fede sciita e con qualche legame con la Repubblica Islamica.

La crisi di questi giorni e, soprattutto, il ricorso da parte dell’Arabia Saudita a metodi medievali di somministrazione della “giustizia”, ha infine messo ulteriormente in imbarazzo il governo americano, in grado soltanto di esprimere blandi comunicati per invitare l’alleato al rispetto dei diritti umani, senza condannare però esplicitamente l’assassinio politico di Nimr al-Nimr.

Le maggiori responsabilità dell’aggravarsi della situazione in Medio Oriente sono d’altra parte da attribuire proprio agli Stati Uniti, di fatto i principali partner economico-militari della dittatura oscurantista di Riyadh, al centro delle trame destabilizzanti del mondo arabo, dalla Siria all’Iraq, dall’Iran allo Yemen.

La politica mediorientale di Washington, basata anch’essa sul tentativo di imporre la propria egemonia a spese dei rivali, continua in definitiva a basarsi su alleanze con regimi ultra-reazionari - come appunto quello dell’Arabia Saudita - che rendono impossibile un esito dei conflitti militari o diplomatici in corso differente dal caos, dalla violenza e dalla repressione.