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di Mario Lombardo

Secondo la stampa americana, il governo cinese nei giorni scorsi avrebbe installato su un’isola contesa nel Mar Cinese Meridionale un sistema di difesa missilistico terra-aria, verosimilmente in risposta alle recenti provocazioni di Washington nel quadro dell’offensiva strategica orchestrata ai danni di Pechino. La notizia è stata riportata da FoxNews e successivamente confermata dal governo di Taiwan. L’isola in questione sarebbe quella di Woody, conosciuta come Yongxing in lingua cinese, nell’arcipelago delle Paracel, ed è rivendicata anche da Vietnam e Taiwan.

Il network statunitense ha citato come prova delle manovre cinesi alcune immagini satellitari che mostrerebbero le batterie di missili e un sistema radar visibili a partire almeno dal 14 febbraio scorso. L’isola di Woody è situata a sud-est della provincia di Hainan e ospita la più grande base aerea di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

La rivelazione ha prevedibilmente trovato conferme anche tra i vertici delle Forze Armate USA, dove si è ipotizzato che il sistema anti-aereo installato sarebbe l’HQ-9, simile al sofisticato S-300 di produzione russa. Secondo FoxNews, questo sistema ha un raggio di oltre 200 chilometri e rappresenterebbe perciò una minaccia per qualsiasi velivolo, sia civile sia militare, che sorvoli la zona. In realtà, i timori americani sono legati alle capacità cinesi di intercettare i propri aerei da guerra dalle isole nel Mar Cinese Meridionale in caso di conflitto con Pechino.

Il governo cinese, per bocca del portavoce del ministro degli Esteri, Hong Lei, ha affermato mercoledì di non essere a conoscenza dei dettagli relativi al posizionamento di un sistema missilistico, ma ha aggiunto che qualsiasi equipaggiamento eventualmente impiegato sull’isola è di natura difensiva e non fa parte di un’escalation militare. In precedenza, il ministro degli Esteri, Wang Yi, aveva invece definito la notizia una “creazione di certi media stranieri”.

Al di là della reticenza del governo di Pechino, il dispiegamento del sistema anti-aereo sull’isola di Woody è stato di fatto confermato da vari accademici e commentatori cinesi citati dalla stampa del loro paese. Tuttavia, è innegabile che l’iniziativa sia effettivamente di natura difensiva e che, soprattutto, giunga in risposta alle manovre americane messe in atto con il preciso scopo di alimentare le tensioni in Estremo oriente.

Gli organi di stampa cinesi e internazionali sono stati pressoché concordi nell’indicare come evento scatenante la reazione cinese l’invio il mese scorso del cacciatorpediniere americano USS Curtis Wilbur all’interno delle 12 miglia nautiche dell’isola di Triton, nelle isole Paracel, situata a circa 160 chilometri da quella di Woody. Dopo questo episodio, il ministero della Difesa cinese aveva annunciato che ci sarebbero state conseguenze non meglio precisate.

Per un esperto di relazioni internazionali dell’università Renmin di Pechino, sentito dal quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, la “logica cinese” nel “costruire strutture militari… dipende dal livello di minaccia percepito”. Le pattuglie americane inviate in precedenza nei pressi delle isole Spratly, sempre nel Mar Cinese Meridionale, non erano infatti viste in maniera così provocatoria come quelle apparse al largo delle Paracel, dal momento che quest’ultimo arcipelago è più vicino alla terraferma e su di esso Pechino esercita un controllo più stretto.

Le tensioni tra USA e Cina sono aumentate da circa un anno a questa parte dopo che l’amministrazione Obama ha iniziato a rilevare e denunciare la costruzione di strutture considerate a uso militare in alcune isole contese del Mar Cinese Meridionale. La Cina, da parte sua, ritiene di avere piena sovranità su queste isole e fa notare come le stesse attività non siano mai condannate da Washington quando a eseguirle sono altri paesi che rivendicano i territori, come Vietnam o Filippine.

La notizia dei missili cinesi ha comunque tutto l’aspetto di una rivelazione piazzata ad hoc dalla stampa USA per coincidere con i lavori del summit dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), andato in scena questa settimana per la prima volta in territorio americano. A Sunnylands, in California, l’amministrazione Obama ha messo tutto il proprio impegno per convincere i paesi membri di questo organismo a emettere un comunicato congiunto che facesse riferimento alle dispute territoriali nel Mar Cinese, condannando la crescente “aggressività” di Pechino.

Lo sforzo è però fallito ancora una volta, visto che la questione più scottante che sta interessando quest’area del continente asiatico è rimasta fuori dalla dichiarazione finale del vertice. A Washington ci deve essere stato parecchio disappunto dopo l’impegno profuso per far allineare alle proprie mire strategiche paesi recalcitranti come Cambogia e Laos.

Il segretario di Stato, John Kerry, aveva recentemente visitato proprio questi due paesi, nella speranza di evitare la ripetizione di quanto accaduto dopo il summit ASEAN del 2012 sotto la presidenza cambogiana, quando l’associazione per la prima volta nella propria storia non era stata in grado di produrre un comunicato finale a causa delle tensioni sulle rivendicazioni territoriali infiammate dagli Stati Uniti.

In California, così, l’amministrazione Obama si è dovuta accontentare della solita dichiarazione formale che ha fatto riferimento all’impegno “condiviso per una soluzione pacifica delle dispute e per il rispetto dei processi legali e diplomatici”, nonché della “sicurezza marittima, incluso il diritto alla libertà di navigazione e sorvolo”.

La necessità di assicurare la “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale viene usata costantemente dagli Stati Uniti per giustificare le proprie manovre in Asia orientale di fronte alla presunta minaccia rappresentata dalla Cina. Questa presa di posizione è però priva di senso e serve a malapena a nascondere i veri obiettivi strategici americani, dal momento che il paese che ha il maggiore interesse nel garantire la sicurezza dei traffici marittimi è proprio la Cina, la quale vede transitare in quest’area una parte considerevole delle proprie esportazioni e importazioni.

Al vertice ASEAN, il governo americano ha lasciato intendere che Pechino ha fatto forti pressioni sui paesi con cui ha legami politici ed economici più stretti per impedire l’approvazione di un comunicato dai toni più duri verso la Cina. Simili proteste sono tuttavia risibili, poiché proprio gli Stati Uniti incoraggiano da anni svariati paesi del sud-est asiatico ad alimentare le tensioni con la Cina su questioni territoriali che per decenni non avevano provocato conflitti di rilievo.

Gli USA, in ogni caso, non saranno scoraggiati dall’esito del summit dell’ASEAN e continueranno a utilizzare le contese nel Mar Cinese per fare pressioni sulla Cina e aumentare la propria presenza militare nell’area. Il prossimo appuntamento da tenere in considerazione a questo proposito è l’attesa sentenza del tribunale de L’Aia che a marzo, in base alla Convenzione ONU sul Diritto del Mare (UNCLOS), dovrà esprimersi su una causa presentata dalle Filippine contro la Cina.

Il caso riguarda una disputa tra questi due paesi nel Mar Cinese Meridionale e, mentre Pechino ha da tempo affermato di non riconoscere l’autorità del tribunale, Washington ha assistito e appoggiato il governo filippino nella vicenda legale, nonostante gli Stati Uniti non abbiano mai sottoscritto la stessa Convenzione delle Nazioni Unite.

Durante l’incontro a Sunnylans, infine, il governo USA ha cercato di promuovere legami economici più stretti con i paesi ASEAN, utilizzando il mega-trattato di libero scambio denominato Partnership Trans Pacifica (TPP), recentemente firmato in Nuova Zelanda tra 12 paesi asiatici e del continente americano.

Brunei, Malaysia, Singapore e Vietnam fanno già parte del TTP, ma l’amministrazione Obama ha incoraggiato altri membri dell’ASEAN a unirsi al trattato nel prossimo futuro, ben sapendo che molti di questi ultimi intrattengono relazioni commerciali molto forti con una Cina che, a sua volta, sta cercando di promuovere anche nel sud-est asiatico i propri progetti di sviluppo inquadrabili nella cosiddetta “Nuova Via della Seta” e nella Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti.

Alcuni di questi paesi, dall’Indonesia alla Thailandia, da Singapore alla Cambogia, dal Laos al Myanmar, hanno finora tenuto un atteggiamento equidistante tra USA e Cina, se non decisamente prudente, per non suscitare reazioni negative da Pechino.

Gli sviluppi recenti in Estremo Oriente, a cominciare dalle continue provocazioni americane, assieme alla già citata sentenza del tribunale competente per la Convenzione sul Diritto del Mare, faranno aumentare tuttavia i livelli di instabilità nella regione, così che risulterà sempre più difficile per i paesi che hanno mostrato fin qui un atteggiamento di cautela evitare una netta scelta di campo tra Pechino e Washington.