Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Ucraina, l’illusione delle armi

di Michele Paris

L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e in Europa. I quasi 61 miliardi appena stanziati non faranno però nulla per cambiare il corso della guerra e, se anche dovessero riuscire a rimandare la resa ucraina, aggraveranno con ogni probabilità i livelli di distruzione e morte nel paese dell’ex Unione Sovietica. La propaganda di governi e media ufficiali, scattata subito dopo il voto in...
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di Michele Paris

Il tema dominante della visita di questi giorni in Europa del presidente americano Obama è senza dubbio rappresentato dai timori di Washington per le rivalità, le divisioni e la grave crisi che stanno attraversando i paesi dell’Unione sotto le pressioni di un’economia in affanno. I tre giorni in Gran Bretagna sono stati caratterizzati dalla questione della possibile uscita di Londra dall’UE (“Brexit”), mentre gli incontri tra domenica e lunedì con i leader di Germania, Francia e Italia hanno al centro, tra l’altro, il trattato di libero scambio transatlantico (TTIP), la lotta al terrorismo e il tentativo di mantenere un fronte unito contro la Russia di Putin.

In un’intervista a un quotidiano tedesco alla vigilia dell’arrivo in Germania, Obama ha ribadito che, pur non essendo suo compito “dire all’Europa come gestire l’Europa”, di un’Unione “forte, unita e democratica” finisce per beneficiarne anche gli Stati Uniti.

Se le preoccupazioni per la democrazia europea non sono in realtà in cima alla lista delle priorità dell’inquilino della Casa Bianca, visto anche che l’UE è stata in questi anni lo strumento per l’implementazione di durissime misure anti-democratiche in molti paesi membri, la necessità di mantenere una certa coesione all’interno dell’Unione ed evitare la sua disintegrazione corrisponde di certo agli interessi americani.

L’importanza di questo punto è apparso chiarissimo dalle parole pronunciate sulla “Brexit” negli interventi pubblici di Obama in Gran Bretagna settimana scorsa. La sua visione sulla questione, che sarà sottoposta a referendum popolare il 23 giugno prossimo, era stata esposta anche in un insolito articolo scritto dallo stesso presidente USA per il giornale filo-Conservatore Daily Telegraph.

L’invasione così palese di un leader americano negli affari politici interni alla Gran Bretagna ha ben pochi precedenti e ha confermato appunto le ansie che sta vivendo la classe dirigente di Washington in previsione delle conseguenze di un possibile abbandono dell’Unione Europa da parte dell’alleato.

Nell’articolo pubblicato venerdì, Obama ha ricordato la lunga amicizia e l’alleanza tra USA e Regno Unito, per poi collegare significativamente la creazione dell’UE a quella delle altre istituzioni internazionali post-belliche che per decenni hanno garantito la stabilità dell’Occidente sotto la guida del capitalismo americano.

In seguito, Obama ha portato un attacco frontale ai sostenitori della “Brexit”, ricordando come “l’influente voce della Gran Bretagna assicuri la forza dell’Europa nel mondo” e che il vecchio continente rimanga “aperto… e strettamente legato ai propri alleati dall’altra parte dell’Atlantico”. Solo il mantenimento di questa alleanza, ha spiegato Obama, consente di far fronte alle sfide del “terrorismo”, alla minaccia di “aggressioni”, presumibilmente da parte della Russia, e alla crisi “economica e dei migranti”.

Gli interessi americani sono risultati poi evidenti nel riferimento alla NATO, dal momento che la forza dell’Alleanza, secondo il presidente Democratico, può essere garantita solo da una solida partnership con il Regno Unito e, di conseguenza, con il resto dell’Europa. In sostanza, la conservazione della NATO come strumento della proiezione degli interessi statunitensi sarebbe messa a rischio da un’eventuale spaccatura nel fronte degli alleati occidentali di Washington.

Lo stesso discorso vale in definitiva anche per la questione economica, essendo gli interessi economici dei poteri forti negli Stati Uniti indissolubilmente legati a quelli promossi dall’apparato militare. Da qui, l’impegno di Obama per ridare slancio a un trattato commerciale transatlantico, i cui scopi sono principalmente la subordinazione del mercato europeo al capitalismo americano e il tentativo di impedire la piena integrazione delle economie dei paesi UE – a cominciare dalla Germania – con la Russia, la Cina e il continente asiatico in genere.

In questa prospettiva, appare chiaro l’obiettivo dell’impegno di Obama per sventare il pericolo “Brexit”. Dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione potrebbero infatti innescarsi minacciose forze centrifughe, peraltro già latenti e a tratti manifeste fin dall’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2008, che potrebbero spaccare l’Europa e riportare nel continente rivalità sopite dopo il secondo conflitto mondiale.

Un simile scenario comporterebbe quasi certamente un certo allontanamento di alcuni paesi dagli Stati Uniti, soprattutto sul fronte economico e commerciale, mettendo a repentaglio i sogni “egemonici” di Washington e i progetti di marginalizzazione di una potenza come la Russia.

Il pensiero americano in questo senso va indubbiamente alla Germania, già tra i paesi più scettici, almeno a livello non ufficiale, verso le politiche di confronto con Mosca, se non altro per i profondi legami che caratterizza(va)no le rispettive economie.

La visita di Obama, e soprattutto il suo intervento in Gran Bretagna, si è comunque innestata su un dibattito interno particolarmente acceso a meno di due mesi dal referendum sulla “Brexit”. Contro il presidente Obama si è scagliato ad esempio duramente e in maniera strumentale il sindaco di Londra, nonché pretendente alla leadership del Partito Conservatore, Boris Johnson. Quest’ultimo ha definito “ipocriti” gli inviti del presidente USA a sacrificare la “sovranità” britannica in una maniera che gli USA “non si sognerebbero mai di fare”.

I toni di Johnson, uno degli esponenti di maggiore spicco della fazione dei Conservatori favorevole alla “Brexit”, sono stati particolarmente accesi e con accenti razzisti, quando in un commento apparso sul Sun di Rupert Murdoch ha definito Obama “mezzo kenyano” e, dunque, ostile alla Gran Bretagna per il suo passato di potenza coloniale.

Ugualmente pesanti sono state le parole del numero due del ministero della Difesa di Londra, Penny Mordaunt, la quale sempre al Telegraph ha affermato che le opinioni di Obama circa “l’impatto dei legami con l’UE sulla nostra sicurezza e sugli interessi del Regno Unito e degli Stati Uniti tradiscono una dolorosa ignoranza”.

A testimonianza dei sentimenti contrastanti suscitati dalla visita di Obama e, più in generale, dal rapporto degli USA con l’Europa, il presidente americano ha trovato un clima tutt’altro che disteso anche in Germania. Il suo arrivo ad Hannover per la tradizionale fiera dedicata alla tecnologia industriale, è stato preceduto dalla mobilitazione di gruppi di protesta contro la ratifica del TTIP (Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti), già oggetto di imponenti manifestazioni in Germania nei mesi scorsi.

Nonostante le parole di elogio avute da Obama per la cancelliera Merkel, anche alcuni esponenti del governo di Berlino sono apparsi tutt’altro che ben disposti sulla questione del TTIP, quanto meno nella sua forma attuale. Il vice-cancelliere e ministro dell’Economia Socialdemocratico, Sigmar Gabriel, ha ad esempio ricordato le condizioni che favoriscono il capitale USA a discapito di quello tedesco, così che, se non dovessero esserci concessioni da parte americana, il trattato di libero scambio potrebbe essere destinato a un clamoroso fallimento.

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