Assange, le “non garanzie” USA

di Michele Paris

Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per...
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Israele e l’equazione iraniana

di Michele Paris

L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove. La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle...
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di Mario Lombardo

Il voto di domenica scorsa in Spagna ha sostanzialmente confermato la generale disaffezione degli elettori verso il sistema bipartitico che ha dominato il paese dalla fine del Franchismo. I risultati, tuttavia, anche se di poco differenti da quelli della consultazione di dicembre, hanno fatto registrare, assieme al nuovo arretramento del Partito Socialista (PSOE) e all’aumento dell’astensione, una relativa battuta d’arresto delle forze autodefinitesi del cambiamento. Allo stesso tempo, il Partito Popolare (PP) al governo dovrebbe finalmente riuscire a mettere assieme un nuovo esecutivo, la cui forma e base di sostegno saranno però tutte da verificare.

Come per la “Brexit”, i sondaggi della vigilia hanno fallito nel prevedere l’esito del voto spagnolo, quanto meno in relazione all’aspetto probabilmente più importante. A differenza di quanto annunciato, l’alleanza elettorale nata dall’unione di Podemos (Possiamo) e Sinistra Unita (IU), ribattezzata Unidos Podemos, ha mancato infatti il sorpasso ai danni del PSOE per proporsi come seconda forza politica del paese e dettare da una posizione di forza una possibile alleanza di governo con i Socialisti.

La coalizione, composta dal movimento scaturito dalle proteste di piazza degli “Indignados” e dalla formazione di sinistra in cui erano confluiti il Partito Comunista Spagnolo e altre formazioni minori, ha aggiunto due seggi a quelli ottenuti il 20 dicembre scorso, ma ha fatto nuovamente peggio del PSOE e ha visto di fatto ridimensionate le proprie ambizioni.

I voti totali raccolti da Unidos Podemos sono stati circa un milione in meno rispetto alla somma di quelli ottenuti separatamente sei mesi fa dalle due formazioni che hanno dato vita all’alleanza elettorale, a conferma che il numero di spagnoli che vede quest’ultima come una valida alternativa politica è oggi in netto calo.

Alcune delle responsabilità del suo leader, Pablo Iglesias, appaiono evidenti e hanno a che fare principalmente con l’eccessivo ammorbidimento dell’agenda progressista del movimento, così da accreditarsi come forza di governo agli occhi delle élites spagnole e internazionali, e al corteggiamento del PSOE dopo il voto di dicembre per mandare in porto un accordo che avrebbe potuto far nascere un gabinetto di centro-sinistra.

Podemos era nato come un movimento anti-establishment fortemente critico sia della “casta” che domina in Spagna sia delle politiche di austerity che hanno messo a durissima prova le classi più disagiate. Il PSOE, appunto, è uno dei due pilastri del sistema politico “corrotto” denunciato da Iglesias e i suoi, mentre, prima di essere sostituito dal PP, fu proprio il governo Socialista di Zapatero a implementare diligentemente le prime misure di rigore dopo la crisi del 2008.

Anche se numericamente un accordo di governo potrebbe essere ancora possibile tra il PSOE, Unidos Podemos e la galassia di partiti su base regionale entrati in Parlamento, il nuovo record negativo di consensi dei Socialisti e l’aura di sconfitta che pesa su Iglesias rendono questa soluzione ancora più improbabile rispetto a qualche mese fa.

Il PP è al contrario uscito rinfrancato da un voto anticipato che i suoi leader indubbiamente temevano. Il premier uscente, Mariano Rajoy, ha preso da subito l’iniziativa, proponendosi di creare un nuovo governo entro un mese. Come dopo il voto di dicembre, i seggi del PP e dell’altro partito di centro-destra, il neo-nato Ciudadanos (Cittadini), non bastano però a raggiungere la maggioranza assoluta, così che Rajoy dovrà percorrere altre strade per poter restare alla guida del governo.

Le ipotesi sono essenzialmente due, entrambe già valutate e scartate nei mesi seguiti alle elezioni di sei mesi fa. La prima prevede un accordo tra il PP e Ciudadanos, sempre che il leader di quest’ultimo movimento, Albert Rivera, lasci cadere la pregiudiziale della sostituzione di Rajoy, ritenuto troppo compromesso con i casi di corruzione emersi negli ultimi anni all’interno del suo partito.

I vertici di Ciudadanos, peraltro, non sembrano rispondere in maniera troppo rigorosa agli imperativi morali auto-imposti se in ballo vi è l’accesso alle stanze del potere. Già nei mesi seguiti al voto di fine 2015, infatti, Rivera aveva sottoscritto un accordo con il PSOE, accolto tuttavia non troppo favorevolmente dai suoi elettori, visto che domenica Ciudadanos ha perso circa l’1% dei consensi e 8 seggi alla Camera bassa (Congresso dei Deputati) del Parlamento di Madrid. Un’intesa su un governo di minoranza con Ciudadanos, in ogni caso, richiederebbe la disponibilità del Partito Socialista a fare astenere i suoi 85 deputati durante il voto di fiducia al nuovo gabinetto.

L’altra opzione che Rajoy sta valutando, e di gran lunga la preferita non solo sua ma anche degli ambienti economici e finanziari domestici e internazionali, è un governo di unità nazionale o una sorta di inedita “grande coalizione” con il PSOE. Questa soluzione permetterebbe all’apparenza di stabilizzare un sistema stravolto dal voto dello scorso dicembre.

A sottolineare questo punto, lunedì il sito web del magazine The Economist, ovvero uno dei principali organi di stampa della finanza internazionale, ha salutato il voto di domenica come un passo avanti nella risoluzione della crisi politica, individuando in una “grande coalizione” lo strumento più adatto a operare “i cambiamenti necessari… a consolidare la ripresa dell’economia, a frenare il separatismo catalano e a restituire legittimità al sistema politico”.

In definitiva, l’attestato di sfiducia alle forze che per quasi 40 anni hanno guidato la Spagna e che negli ultimi otto hanno portato avanti un processo di ristrutturazione dell’economia e dei rapporti di classe con conseguenze durissime per la gran parte della popolazione dovrebbe risolversi, almeno momentaneamente, con la conferma del predominio di queste stesse forze e con l’intensificazione delle odiate politiche di rigore, invocate da The Economist attraverso una serie di perifrasi attentamente studiate.

Che una di queste due soluzioni porti allo sblocco dello stallo nelle prossime settimane appare verosimile anche alla luce del fatto che Unidos Podemos sarà in grado di recuperare la spinta e l’entusiasmo affievolitisi dopo il voto di domenica solo agendo da opposizione a un governo PP-PSOE – o PP-Ciudadanos con tacito appoggio dei Socialisti – che, è facile prevedere, diventerà presto impopolare.

L’ostacolo principale resta piuttosto il PSOE stesso, al cui interno si era già discusso in maniera molto accesa dopo le elezioni di dicembre sull’opportunità di favorire un governo a guida Popolare, così come di accettare la proposta avanzata da Podemos. Lunedì, il numero uno Socialista, Pedro Sanchez, ha di nuovo escluso sia l’astensione che l’ingresso in un governo Rajoy. Le dichiarazioni non sono sembrate però una chiusura totale, anzi, Sanchez ha forse gettato le basi per una trattativa con il PP, ipotizzando l’astensione del deputato delle Canarie, Pedro Quevedo, indipendente eletto nelle file del PSOE, in un eventuale voto di fiducia a Rajoy.

Aperture, smentite, messaggi in codice e altro ancora si moltiplicheranno nei prossimi giorni, almeno fino a quando il PSOE prenderà una posizione ufficiale, con ogni probabilità il 9 luglio prossimo, data in cui è stata convocata la direzione del partito.

I dubbi che agitano i leader Socialisti non sono tanto per la natura fondamentalmente reazionaria che avrebbe il nuovo governo Rajoy, visto lo spostamento a destra del PSOE in questi anni, quanto le ripercussioni elettorali su un partito che ha già imboccato una netta parabola discendente negli ultimi appuntamenti con le urne e che rischia di finire nell’irrilevanza politica come è accaduto ad esempio al PASOK in Grecia.

Il caos esploso dopo il voto sulla “Brexit”, che ha in parte anche favorito il parziale recupero del PP rispetto a sei mesi fa, la situazione economica e finanziaria precaria della Spagna e le pressioni internazionali per risolvere la crisi politica a Madrid spingeranno però probabilmente il PSOE ad accettare un qualche accomodamento per far nascere un nuovo governo guidato dalla destra.

Rajoy, da parte sua, lunedì ha già anticipato la disponibilità del PSOE a trattare, mentre alcuni media hanno citato anonimi esponenti di rilievo di quest’ultimo partito che, nonostante la posizione ufficiale contraria del numero uno, Pedro Sanchez, hanno lasciato intendere non solo la disponibilità quanto meno a consentire la nascita di un esecutivo di minoranza del PP, ma a fare di tutto perché si giunga a un simile esito nel più breve tempo possibile.

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