Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i manifestanti hanno ottenuto l’appoggio dei docenti, i quali hanno sospeso le lezioni per protestare a loro volta contro l’arresto di oltre cento studenti nei giorni scorsi. Esponenti del Partito Democratico e di quello Repubblicano, così come il presidente Biden, hanno denunciato la mobilitazione, rispolverando le solite accuse di antisemitismo e a...
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di Carlo Musilli

Sembrava la fine di un presidente, ma è stata la nascita di un sultano. Il fallito tentativo di golpe dello scorso 15 luglio dà a Recep Tayyp Erdogan la possibilità di realizzare il progetto della vita: trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale sul modello russo, concentrando nelle mani di un uomo solo il potere esecutivo.

Da anni Erdogan vuole cambiare la Costituzione turca per rendere legittimi i poteri di cui già dispone e l’occasione sembrava sfumata lo scorso novembre, quando alle elezioni parlamentari il suo partito (l’Akp) ha conquistato la maggioranza, ma non i due terzi dei seggi necessari a mandare in porto la riforma. A questo punto, invece, a Erdogan basterà indire un referendum per ottenere dagli elettori l’investitura finora negata.

Se ci riuscirà dovrà ringraziare proprio il colpo di Stato più ridicolo degli ultimi decenni, che gli ha consentito di presentarsi al mondo (o perlomeno ai turchi) come difensore della libertà e paladino della democrazia minacciata dall’esercito. Fino alla settimana scorsa era un leader dispotico, oscurantista e tormentato dagli scandali, ma ormai chi potrà dimenticare il video girato di notte in cui Erdogan chiedeva al popolo di scendere nelle strade per combattere contro i carri armati? Una scena madre degna di Tom Clancy.

Nel frattempo, sono stati arrestati centinaia di giudici, compresi alcuni della Suprema corte amministrativa e uno della Corte costituzionale. La strada verso la riforma è davvero in discesa.

Ma non è questo l’unico dividendo in favore del Sultano. Il golpe degli inetti consente al Presidente turco di perseguire anche altri due obiettivi fondamentali: fare piazza pulita nell’esercito e restringere ulteriormente lo spazio concesso all’opposizione.

Sul primo fronte, i numeri parlano chiaro: in sole 24 ore sono state arrestate quasi 3mila persone, di cui circa 1.700 militari che saranno processati per alto tradimento, con il vicepremier che ha già chiesto il ripristino della pena di morte. È evidente che una parte dell’esercito andrà ricostruita da zero - operazione peraltro già tentata in passato - e c’è da scommettere che i futuri ufficiali non saranno nostalgici del laico Atatürk.

Quanto agli oppositori politici, Erdogan ha già iniziato ad accanirsi contro Fethullah Gülen, predicatore ed ex alleato che vive in esilio in Pennsylvania, accusandolo di essere il regista occulto del tentativo di golpe e chiedendone l’estradizione agli Stati Uniti, che però vogliono le prove. Da parte sua, Gülen ha rispedito le insinuazioni al mittente: “C’è la possibilità - ha detto - che il colpo di stato in Turchia sia stata tutta una messa in scena”. Anche questa tesi è dietrologica, vaga e prova di riscontri, ma risulta comunque più convincente di quella sostenuta da Erdogan.

Riguardo alle relazioni con l’Ue, sembra poco probabile che i fatti del 15 aprile inducano a rivedere gli accordi commerciali fra Bruxelles e la Turchia, così come la delicatissima intesa sui migranti. Il motivo è semplice: non conviene a nessuno. Certo, l’affidabilità di Ankara agli occhi dell’Europa è diminuita ancora, perché con un esercito in queste condizioni il Paese potrebbe avere difficoltà a gestire anche la sicurezza interna, figurarsi il conflitto in Siria e il transito dei profughi. Al tempo stesso, però, la Turchia rimane un alleato strategico dal punto di vista politico ed economico: nel primo caso come cerniera fra Europa e Medio Oriente, nel secondo come hub internazionale per le vie del petrolio e del gas.

Per tutte queste ragioni i leader europei e la Casa Bianca si sono ben guardati dal prendere posizione sul colpo di Stato mentre questo era in corso, salvo poi sciogliersi in fiumi di felicitazioni per la vittoria della democrazia. Dal canto suo, Erdogan ha evitato di puntare il dito contro i suoi alleati, pur sapendo che nessuno di loro si sarebbe stracciato le vesti in caso di vittoria dei militari. E nemmeno una voce si è alzata contro la Nato, rimasta silenziosa e in disparte mentre scoppiava un conflitto militare in un Paese interno all’Alleanza. A ben vedere, i colonnelli e i generali che hanno animato il golpe erano proprio uomini della Nato, per cui anche su questo fronte gli appassionati di dietrologia avranno vita facile.

In ogni caso, cambiando l’ordine dei fattori il risultato rimane lo stesso. Che dietro al colpo di Stato turco ci siano soltanto alcune frange dell’esercito, la Nato, Gülen o Erdogan stesso, nei prossimi mesi assisteremo all’ascesa finale di un sultano.

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