Il pugno di ferro del Piano Ruanda

di redazione

Dopo due anni di ostruzionismo da parte della Camera dei Lord, il governo conservatore britannico ha alla fine incassato l’approvazione definitiva della legge che consente di deportare immigrati e richiedenti asilo in Ruanda. La “Safety of Rwanda (Asylum and Immigration) Bill” ha chiuso il suo percorso al parlamento di Londra poco dopo la mezzanotte di lunedì. Il provvedimento, introdotto...
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Ucraina, l’illusione delle armi

di Michele Paris

L’approvazione di una nuova all’apparenza consistente tranche di aiuti americani da destinare all’Ucraina è stata per mesi invocata come la soluzione alla crisi irreversibile delle forze armate e del regime di Kiev di fronte all’avanzata russa. Il via libera della Camera dei Rappresentanti di Washington nel fine settimana ha perciò scatenato un’ondata di entusiasmo negli Stati Uniti e in Europa. I quasi 61 miliardi appena stanziati non faranno però nulla per cambiare il corso della guerra e, se anche dovessero riuscire a rimandare la resa ucraina, aggraveranno con ogni probabilità i livelli di distruzione e morte nel paese dell’ex Unione Sovietica. La propaganda di governi e media ufficiali, scattata subito dopo il voto in...
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di Michele Paris

Una serie di dichiarazioni e prese di posizione da parte di importanti esponenti di alcuni governi europei sembrano avere assestato in questi ultimi giorni un colpo forse mortale alle residue speranze di vedere sottoscritto a breve il famigerato trattato di libero scambio con gli Stati Uniti, noto con il nome di Partnership Transatlantica sul Commercio e gli Investimenti (TTIP).

A far tornare i riflettori sui negoziati tra Bruxelles e Washington, da tempo in fase di stallo, era stato nel fine settimana il ministro dell’Economia tedesco, nonché vice-cancelliere, Sigmar Gabriel. Il leader Social Democratico aveva preso atto nel corso di un’intervista alla TV pubblica ZDF del fallimento delle trattative, dovuto all’impossibilità da parte europea di “accettare le richieste americane”.

Gabriel aveva fatto riferimento ai 14 round di negoziati tenuti a partire dal giugno del 2013, durante i quali le due parti non sono state in grado di raggiungere un accordo su nessuna delle 27 sezioni che compongono il trattato transatlantico.

La posizione espressa dal vice-cancelliere tedesco è condivisa da molti all’interno della classe dirigente europea. Il governo Socialista francese è ad esempio tra i più critici del TTIP. Già nel mese di maggio, il presidente Hollande aveva di fatto bocciato il trattato, sull’onda anche di svariate manifestazioni di protesta seguite alla pubblicazione di documenti segreti relativi ai contenuti dei negoziati.

Sempre questa settimana, poi, il ministro per il Commercio Estero di Parigi, Matthias Fekl, ha scritto in un tweet che il suo governo intende chiedere la fine delle trattative sul TTIP. Lo stesso ministro francese qualche mese fa aveva previsto il tracollo dei negoziati, assegnandone la responsabilità alle posizioni troppo rigide degli Stati Uniti.

Il trattato in fase di discussione punta non solo all’eliminazione delle barriere doganali da entrambe le sponde dell’Atlantico, ma anche e soprattutto allo smantellamento delle regolamentazioni previste in vari ambiti e che limitano l’attività e i profitti delle grandi aziende.

I timori maggiori riguardano possibili nuovi attacchi all’assistenza sanitaria pubblica, al welfare in generale, ai livelli delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e alla sicurezza ambientale e alimentare.

Particolare allarme suscita inoltre una clausola consueta per i trattati di libero scambio e che è inclusa anche nel TTIP, quella cioè che consente alle corporation di fare causa ai paesi in cui operano se questi ultimi mettono in atto leggi o adottano provvedimenti che minacciano i loro livelli di profitto.

Le dichiarazioni di Gabriel sono state in ogni caso criticate da altri esponenti della politica tedesca e a livello europeo. La cancelliera Merkel solo qualche settimana fa aveva definito il TTIP “assolutamente nell’interesse dell’Europa”.

Il portavoce del governo di Berlino, Steffen Seibert, ha risposto infatti questa settimana alle parole del ministro dell’Economia sostenendo che le trattative devono continuare, mentre in precedenza, dopo la diffusione di un recente rapporto dello stesso dicastero che prevedeva scarse possibilità di intesa sul TTIP, aveva ribadito che l’intero gabinetto appoggiava gli sforzi per la firma dell’accordo in tempi brevi.

Pubblicamente, i vertici europei appaiono anch’essi convinti della possibilità di mandare in porto il TTIP. Il capo dei negoziatori UE, lo spagnolo Ignacio Garcia Becerra ha escluso lunedì che il trattato sia da considerarsi morto. Il portavoce della Commissione Europea, Margaritis Schinas, ha addirittura assicurato che quest’ultima è tuttora “pronta a finalizzare l’accordo entro il 31 dicembre 2016”.

L’ex politico greco ha tuttavia ammesso indirettamente che le possibilità di un simile esito sono quasi inesistenti, poiché Bruxelles non è disposta a sacrificare “la sicurezza, la salute, le protezioni sociali e dei dati personali o la diversità culturale” dell’Europa per raggiungere un accordo con gli Stati Uniti. Le voci contrarie tra i governi del continente emerse negli ultimi mesi minacciano comunque il naufragio dell’accordo, visto che, anche in caso di successo dei negoziati, esso dovrebbe essere ratificato da ognuno dei 27 paesi dell’Unione.

Da Washington, infine, il rappresentate del governo americano per il commercio estero, Michael Froman, si è comprensibilmente mostrato ottimista sui negoziati, i quali a suo dire avrebbero anzi fatto alcuni progressi.

A influire in parte sul clima di sfiducia che avvolge il TTIP è però anche lo scenario politico americano, segnato in questa fase pre-elettorale dallo scetticismo di entrambi i candidati alla presidenza. Hillary Clinton, in particolare, da qualche tempo ha fatto marcia indietro sul trattato transatlantico, dicendosi ufficialmente contraria, vista la predisposizione degli elettori Democratici nei confronti di accordi di libero scambio che, in passato, hanno contribuito all’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero americano.

Se le rivelazioni sui contenuti del TTIP, assieme alla segretezza con cui vengono condotti i negoziati, hanno prodotto una vasta quanto legittima opposizione popolare al trattato in Europa, le prese di posizione di politici come il ministro tedesco Sigmar Gabriel hanno poco a che fare con scrupoli per la democrazia o per le residue protezioni sociali garantite dai paesi europei.

Lo stesso Gabriel ha d’altra parte manifestato il suo sostegno per il trattato di libero scambio tra UE e Canada che contiene alcune clausole simili a quelle previste dal TTIP. I negoziati sul cosiddetto CETA (Accordo Economico e Commerciale Globale) si erano conclusi nell’agosto del 2014 e il trattato euro-canadese è ora in attesa di essere approvato dai 27 paesi UE e dal parlamento europeo.

Le sezioni del governo tedesco, così come di quello francese o di altri paesi, che si oppongono al TTIP non sono cioè contrarie al libero scambio di merci e servizi, né al prevalere degli interessi delle grandi corporation su quelli di lavoratori e cittadini comuni. La loro opposizione all’accordo con il governo di Washington, alla luce dell’insistenza di quest’ultimo per l’inclusione di condizioni in larga misura vantaggiose per il capitalismo USA, è dovuta piuttosto all’impossibilità di garantire posizioni favorevoli alle proprie aziende nei confronti delle concorrenti americane.

Una parte del business tedesco, rappresentato soprattutto dal partito della cancelliera Merkel, spinge dunque per l’approvazione del TTIP, in modo da massimizzare i profitti derivanti dai rapporti commerciali già molto solidi del loro paese con gli Stati Uniti. Altri, al contrario, auspicano un riorientamento del business tedesco verso il continente asiatico, se non la stessa Russia, dove promette di concretizzarsi buona parte della crescita economica futura.

Questi ultimi vedono di conseguenza il consolidamento della partnership economica con gli Stati Uniti come un ostacolo e le loro istanze si intrecciano inevitabilmente con delicate questioni di natura strategica che, in un clima internazionale caratterizzato da crescenti rivalità, hanno già prodotto pericolose frizioni tra Berlino e Washington su questioni legate, ad esempio, ai rapporti da tenere con paesi come Russia e Cina.

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