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di Michele Paris

Il mancato accordo tra i membri del G-20 sull’inserimento del consueto appello a “resistere a ogni forma di protezionismo” commerciale nel comunicato finale, seguito al vertice dello scorso fine settimana in Germania, ha segnato probabilmente uno snodo cruciale nell’evoluzione sia dei rapporti tra le principali potenze economiche del pianeta sia della crisi del sistema di regole costruito dopo il secondo conflitto mondiale.

I ministri delle Finanze riuniti a Baden Baden sono riusciti a concordare una blanda dichiarazione che ha semplicemente affermato l’impegno a “rafforzare il contributo del commercio” alle economie dei rispettivi paesi. Il rappresentante del governo americano, Steven Mnuchin, ha inoltre chiesto e ottenuto un riferimento alla necessità di “ridurre gli squilibri globali”, ovvero di porre rimedio al deficit della bilancia commerciale che gli Stati Uniti fanno segnare con molti paesi.

Secondo le ricostruzioni della stampa, a favore degli USA si sarebbe schierato solo il Giappone, anche se in maniera tiepida e per un preciso calcolo politico-strategico, mentre praticamente tutti gli altri paesi membri si sono mostrati contrari alla mancata condanna ufficiale delle pratiche protezioniste.

La distanza tra le prese di posizione ufficiali dei G-20 nel recente passato e quelle dell’ultimo summit dipende in primo luogo dall’agenda ultra-nazionalista dell’amministrazione Trump. Mnuchin ha cioè bloccato un comunicato che avrebbe contraddetto apertamente le iniziative e le promesse fatte dalla Casa Bianca in ambito commerciale.

Nelle scorse settimane, così come in campagna elettorale, Trump e il suo staff hanno prospettato, tra l’altro, l’imposizione di dazi doganali sulle merci in ingresso negli Stati Uniti e misure punitive nei confronti di paesi esportatori, come Germania e Cina, fino a minacciare di ignorare le decisioni dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) se esse dovessero risultare contrarie agli interessi americani.

Al G-20, vista l’esplosività della questione e l’inopportunità di aprire uno scontro aperto con un’amministrazione americana appena insediatasi, ha prevalso la mediazione tra le posizioni di Washington e quelle degli altri paesi. Tuttavia, la volontà di evitare una rottura e il probabile naufragio del G-20 stesso ha soltanto rinviato l’esplosione a tutti gli effetti di una crisi della governance globale che il “fenomeno” Trump ha accelerato nel tentativo di salvare il capitalismo americano a spese del resto del mondo.

Il possibile riemergere di guerre doganali e delle tendenze protezioniste, che già contribuirono in maniera decisiva allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, risponde a una logica distruttiva, secondo la quale gli Stati Uniti devono adottare provvedimenti di questo genere per invertire il proprio declino economico, attribuito in primo luogo al deficit commerciale registrato nei confronti di Berlino o Pechino.

Com’è puntualmente successo in passato, l’applicazione di dazi e tasse sulle importazioni da parte di un determinato paese spinge quelli colpiti a mettere in atto ritorsioni simili, provocando un’escalation che rischia di spostarsi facilmente dall’ambito commerciale a quello militare.

Dopo il vertice di Baden Baden, alcuni leader dei G-20 hanno cercato di fare buon viso a cattivo gioco e di minimizzare il conflitto con Washington. L’ospite del summit, il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, ha fatto riferimento alla necessaria prudenza di un’amministrazione che, come quella americana, ha assunto pieni poteri solo da un paio di mesi.

L’esito del G-20 e le posizioni americane hanno però smentito del tutto lo stesso Schäuble, il quale solo qualche giorno prima del summit aveva lanciato un appello per un sistema commerciale globale “multilaterale, basato su un sistema di regole condiviso, trasparente, non discriminatorio, aperto e inclusivo”.

Questo modello è stato da subito messo in discussione dall’amministrazione Trump e le scintille anche con paesi formalmente alleati degli Stati Uniti, come appunto la Germania, non erano mancate nelle scorse settimane. Alla minaccia del presidente USA di applicare un dazio del 35% sulle automobili tedesche importante in America, il ministro dell’Economia di Berlino, Brigitte Zypries, aveva ad esempio minacciato un ricorso al WTO, alludendo sarcasticamente a una possibile nuova sconfitta di Trump nei tribunali dopo quelle collezionate con i due bandi anti-migranti firmati di recente dal presidente.

L’epilogo del G-20 di Baden Baden segna dunque anche formalmente l’allontanamento dalle modalità consensuali con cui le principali potenze economiche del pianeta si erano impegnate a risolvere le conseguenze della crisi finanziaria del 2008-2009.

In realtà, le tendenze protezionistiche non sono state inaugurate dall’amministrazione Trump, né sono limitate agli Stati Uniti, dal momento che rappresentano la manifestazione di contraddizioni oggettive del sistema capitalistico.

Come ha ricordato un commento apparso in questi giorni sul sito web della testata tedesca Deutsche Welle, il protezionismo è tornato a ripresentarsi da qualche tempo, malgrado i governi di tutto il mondo negli ultimi anni abbiano “sempre promesso gli uni agli altri di promuovere il libero commercio e di ridurre le barriere doganali”. A partire dal 2008, infatti, il WTO ha registrato, tra i paesi che ne fanno parte, l’implementazione di più di duemila provvedimenti restrittivi del libero commercio.

Queste tendenze erano però state sempre smentite a livello ufficiale, in particolare nel corso delle riunioni dei G-20, mentre i negoziati per trattati di libero scambio tra gli USA e l’Europa (TTIP) e tra gli USA e una manciata di paesi asiatici e del continente americano (TPP) indicavano l’esistenza di uno sforzo, guidato da Washington, per rafforzare un sistema di regole condiviso per il commercio globale, sia pure nell’interesse primario del capitalismo americano.

Solo lo scorso mese di luglio, poi, il G-20 di Chengdu, in Cina, aveva concluso i lavori emettendo un comunicato ufficiale nel quale vi erano numerosi riferimenti al “libero commercio” e l’impegno a combattere “ogni forma di protezionismo”.

L’ingresso di Trump alla Casa Bianca ha invece segnato una rottura anche formale in questo senso. Il nuovo presidente ha subito fermato il processo di approvazione del TPP, così come ha promesso una revisione del trattato di libero scambio NAFTA con Canada e Messico.

L’inversione di rotta rispetto all’amministrazione Obama consiste nell’abbandonare il multilateralismo e i metodi apparentemente cooperativi nella promozione degli interessi delle corporation americane, privilegiando un’attitudine più aggressiva nella ricerca di accordi, preferibilmente bilaterali, che risultino apertamente favorevoli agli Stati Uniti.

Visti gli equilibri commerciali tra questi ultimi e paesi come Cina o Germania, nonché alla luce della spietata competizione per l’accaparramento di nuovi mercati a livello internazionale, è evidente che l’accelerazione protezionistica di Washington rischia di fare esplodere gravissimi conflitti nel prossimo futuro.

Berlino, ad esempio, basa la propria potenza economica e la propria stabilità interna sull’export, così da rendere straordinariamente delicata qualsiasi alterazione a proprio sfavore della situazione attuale. Secondo i dati del governo americano, le compagnie tedesche nel solo 2016 hanno esportato negli USA beni per oltre 114 miliardi di dollari e il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Germania nello stesso anno è stato di quasi 65 miliardi di dollari.

Come già accennato, i precedenti storici ricordano che l’escalation del protezionismo raramente ha conseguenze limitate al solo ambito economico-commerciale. Un commento al vertice di Baden Baden del Wall Street Journal ha spiegato come l’adozione di nuovi dazi e barriere doganali, oltre a minacciare la crescita economica globale, “potrebbe inasprire le tensioni geopolitiche”.

La situazione più calda in questo senso è quella della penisola di Corea, dove lo scontro tra Washington e Seoul da una parte e il regime di Pyongyang dall’altra si intreccia con le manovre americane per contenere l’espansione della Cina, non a casa bersaglio principale, assieme alla Germania, della polemica sugli “squilibri” commerciali globali.

Gli scenari descritti stanno determinando infine un rimescolamento delle relazioni internazionali. Oltre a provocare frizioni con i propri alleati europei, le inclinazioni dell’amministrazione Trump spingono questi ultimi a occupare gli spazi lasciati liberi dagli USA, quanto meno in ambito commerciale.

Subito dopo la chiusura del G-20, la cancelliera tedesca Merkel ha incontrato il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, con il quale ha preso apertamente le distanze dalle tendenze protezionistiche del nuovo governo americano. Il faccia a faccia ha preceduto l’incontro di martedì tra lo stesso premier nipponico e il presidente della Commissione europea Juncker con al centro la conclusione dei negoziati per un trattato di libero scambio tra Tokyo e Bruxelles, avviati formalmente già nel 2013.

In precedenza, il commissario europeo per il Commercio, Cecilia Malmström, aveva messo in chiaro la strategia dell’Unione, interessata ad accordi simili anche con Messico, Filippine e Indonesia, in quella che apparirebbe come una vera e propria interferenza, difficilmente ignorabile dall’amministrazione Trump, con gli interessi degli Stati Uniti.