USA, l’imbroglio del Mar Rosso

di Mario Lombardo

A quasi tre mesi dall’inizio della “missione” americana e britannica nel Mar Rosso, per contrastare le iniziative a sostegno della Resistenza palestinese del governo yemenita guidato dal movimento sciita Ansarallah (“Houthis)”, nessuno degli obiettivi fissati dall’amministrazione Biden sembra essere a portata di mano. Gran parte dei traffici commerciali lungo questa rotta, che collega...
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Sahra Wagenknecht, nuova stella (rossa) tedesca

di redazione

Sahra Wagenknecht: «Ue troppo centralista, l’Ucraina non può vincere. È vero che molti elettori della vecchia sinistra sono andati a destra, non perché razzisti o nazionalisti, bensì perché insoddisfatti» BERLINO — Sahra Wagenknecht è di sinistra, conservatrice di sinistra, dice lei. Ha fondato un partito che porta il suo nome, perché – sostiene – il principale problema dei progressisti europei è che «la loro clientela oggi è fatta di privilegiati». I detrattori la accusano di essere populista, ma il partito cresce e in alcune regioni dell’Est è la seconda o terza forza. Abbastanza da poter rompere gli equilibri della politica tedesca. Insomma, è diventata un fenomeno. Ci accoglie nel suo studio, con i colleghi del...
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di Mario Lombardo

Nella giornata di venerdì, 55 milioni di elettori in Iran saranno chiamati a votare per le prime presidenziali a partire dall’accordo sul programma nucleare della Repubblica Islamica, siglato nel 2015 con le principali potenze del pianeta. La sfida si giocherà di fatto tra due candidati, il presidente in carica Hassan Rouhani e il favorito dei conservatori Ebrahim Raisi, e il vincitore dovrà guidare il paese mediorientale in un clima di crescenti tensioni internazionali.

A lungo ritenuto sicuro di venire rieletto, negli ultimi giorni Rouhani ha visto salire le quotazioni del suo principale sfidante, non tanto per il sostegno dell’establishment religioso sciita incassato da quest’ultimo, quanto per il mancato materializzarsi delle promesse di miglioramento delle condizioni di vita delle classi più disagiate, nonostante l’oggettiva ripresa del quadro economico generale.

A correre per la presidenza saranno ufficialmente quattro candidati. Oltre ai due favoriti, sulle schede gli elettori troveranno anche Mostafa Agha Mirsalim, assimilabile allo schieramento conservatore, e Mostafa Hashemi-Taba, ritenuto invece vicino ai “riformisti”. La legge elettorale iraniana prevede un eventuale ballottaggio se nessuno dei candidati dovesse ottenere la maggioranza assoluta dei voti al primo turno.

Inizialmente, in circa 1.600 avevano presentato la propria candidatura, tra cui più di 100 donne, ma il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organo deputato alla selezione, ne ha approvati solo sei. Il vice-presidente, Eshaq Jahangiri, e il sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Ghalibaf, questa settimana hanno però annunciato il ritiro dalla corsa e appoggiato rispettivamente Rouhani e Raisi.

Tra gli aspiranti c’era anche Mahmoud Ahmadinejad, nonostante l’ex presidente avesse appoggiato la candidatura del suo protetto, Hamid Baghaie, e fosse stato “consigliato” dalla guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, di non provare a correre per la presidenza. Alla fine, sia Ahmadinejad che Baghaei sono stati esclusi dal Consiglio dei Guardiani.

Se per molti in Occidente le elezioni in Iran sono una specie di farsa, entro i limiti imposti dal sistema il voto per la scelta del presidente è in realtà una competizione incerta e aperta, come testimoniano anche i toni spesso molto accessi che hanno caratterizzato la campagna appena conclusa. In uno dei dibattiti televisivi che hanno preceduto il voto, Rouhani aveva ad esempio attaccato duramente Raisi per essere stato nel 1988 uno dei quattro giudici che avevano presieduto alle condanne a morte di massa di dissidenti iraniani.

L’accordo sul nucleare del 2015 e il suo impatto sulla realtà iraniana sono stati tra i temi più caldi di una campagna elettorale che ha comunque avuto l’economia al centro del dibattito. Visto l’appoggio garantito da Khamenei alle trattative con i paesi del P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania), nessuno dei candidati ha prospettato un sabotaggio dell’intesa raggiunta a Vienna. I conservatori hanno però sottolineato ripetutamente come pochi dei benefici materiali promessi da Rouhani e dal suo ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, si siano materializzati a seguito della firma dell’accordo.

La crescita economica è passata in effetti dal -6% nel 2013, anno in cui Rouhani ha conquistato la presidenza, al +7% del 2016, grazie soprattutto al ritorno del greggio iraniano sui mercati precedentemente chiusi dalle sanzioni internazionali. Numerose grandi compagnie europee e asiatiche sono poi tornate a Teheran per sondare la possibilità di fare affari in un paese dalle potenzialità enormi.

Ad agire da freno è tuttavia il timore di incorrere nei divieti imposti dalle sanzioni unilaterali degli Stati Uniti, in larga misura ancora in vigore e che penalizzano soprattutto il cruciale settore bancario. Il persistere di questi ostacoli ha offerto ai candidati conservatori una solida linea d’attacco contro Rouhani. Raisi, in particolare, ha criticato il presidente e la sua amministrazione per non essere stati sufficientemente fermi con il “nemico”, in modo da estrarre migliori condizioni dall’accordo sul nucleare, e allo stesso tempo ha sfruttato il malcontento di lavoratori e contadini promettendo un ritorno a politiche sociali generose dopo quattro anni di rigore.

L’attitudine populista di Raisi sembra avere fatto breccia nel margine di vantaggio attribuito a Rouhani. Risultati come l’allentamento di alcune sanzioni e il contenimento dell’inflazione hanno garantito al presidente l’approvazione degli ambienti borghesi iraniani e di quelli finanziari internazionali. Ma i mancati investimenti in progetti di sviluppo sociale, assieme all’aumento dei prezzi energetici e il taglio dei sussidi in denaro garantiti ai più poveri, iniziato già nel secondo mandato di Ahmadinejad, hanno inevitabilmente generato un senso di frustrazione tra le classi più deboli che potrebbe riflettersi sul risultato elettorale.

In questo quadro, durante la campagna elettorale Rouhani ha cercato di mobilitare i giovani e la classe media che rappresenta tradizionalmente il punto di riferimento dei moderati/riformisti iraniani. Il presidente ha spesso insistito sulla necessità di ampliare le libertà civili nel paese, criticando l’estremismo e la chiusura del fronte conservatore.

Le chances di vittoria di Raisi sono inoltre legate ai favori della guida suprema di cui godrebbe e del quale è considerato uno dei probabili successori. La sua decisione di candidarsi ai primi di aprile aveva in realtà lasciato perplessi molti osservatori, ma, vista anche la sua mancanza di esperienza governativa, il passaggio attraverso la presidenza potrebbe rappresentare un trampolino di lancio verso la carica più alta della Repubblica Islamica.

Il 56enne Raisi è il “custode” del più importante ente caritativo iraniano (Astan Quds Razavi), a cui è affidato il principale mausoleo del paese, quello dell’Imam Reza, nella città di Mashhad. Inoltre, Raisi è un “seyed”, per gli sciiti un discendente del profeta Muhammad, come denota il turbante nero che indossa, e dopo la rivoluzione del 1979 aveva scalato rapidamente i ranghi del nuovo regime.

L’identità del prossimo presidente iraniano influirà sull’evolversi delle relazioni tra Teheran e l’Occidente, così come sulla situazione in Medio Oriente. Il clima alla vigilia del voto è d’altra parte caratterizzato dalle scosse prodotte dall’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, la cui amministrazione ha subito mostrato di voler tornare a un approccio aggressivo nei confronti della Repubblica Islamica.

Se i problemi interni di Trump e la crisi nella penisola di Corea hanno fatto passare relativamente in secondo piano la questione iraniana, l’attitudine del nuovo governo americano ha già rinvigorito il fronte anti-iraniano, con esponenti dei regimi di paesi come Arabia Saudita e Israele protagonisti di aperte minacce nei confronti di Teheran.

Da Washington, peraltro, proprio questa settimana è stata prolungata la sospensione di alcune sanzioni economiche che gravano sull’Iran, come previsto dall’accordo sul nucleare di Vienna, visto il sostanziale rispetto da parte della Repubblica Islamica delle condizioni in esso contenute.

Com’è noto, però, Trump e i membri del suo gabinetto continuano a mostrare l’intenzione di tornare alla linea dura nei confronti dell’Iran, considerato il principale ostacolo al dispiegamento degli interessi americani in Medio Oriente e uno dei paesi fondamentali nel processo di integrazione euro-asiatica che Washington vede con estrema preoccupazione.

Gli Stati Uniti continuano per ora a tenere congelate le sanzioni internazionali contro l’Iran principalmente per non andare contro gli alleati europei, ormai intenzionati a reintegrare Teheran nei circuiti del capitalismo internazionale. Tuttavia, allo stesso tempo gli USA minacciano nuovi provvedimenti punitivi unilaterali, come quelli annunciati mercoledì, ufficialmente in risposta al legittimo programma missilistico iraniano.

In questa situazione, la conferma di Rouhani alla guida del paese rappresenterebbe la prosecuzione della politica estera iraniana all’insegna del tentativo di distensione con l’Occidente. Dietro al presidente in carica ci sono infatti forze e interessi economici che intendono beneficiare sempre più dei ristabiliti legami con il business occidentale. Sul fronte domestico, queste forze appoggiano invece le politiche di austerity implementate negli ultimi quattro anni dall’amministrazione uscente.

Una vittoria di Raisi, che segnerebbe la prima sconfitta in assoluto alle urne di un presidente in carica nella Repubblica Islamica, determinerebbe al contrario un probabile raffreddamento delle relazioni internazionali dell’Iran, quanto meno con l’Occidente.

Il fronte conservatore iraniano è costituito da sezioni del regime che hanno legami più che altro con la burocrazia e le grandi aziende statali, spesso collegate ai Guardiani della Rivoluzione, o che sono orientate economicamente verso paesi come Russia e Cina. Questa fazione risente inoltre delle concessioni fatte in seguito alla firma dell’accordo sul nucleare e predilige un rafforzamento del cosiddetto “asse della resistenza” anti-americano, anche come strumento di legittimazione e controllo delle tensioni sociali interne.

Le divisioni interne all’Iran si riflettono infine sulle posizioni dell’Occidente in merito al voto di venerdì. L’orientamento prevalente è indubbiamente quello di vedere una conferma di Rouhani, in modo da approfondire la cooperazione economica e commerciale lanciata a partire dal 2015.

Soprattutto negli Stati Uniti, però, in molti auspicano più o meno segretamente un successo di Raisi e dei conservatori, così da sfruttare il probabile clima di ostilità verso l’Occidente che si produrrebbe nuovamente in Iran per giustificare l’affondamento dell’accordo di Vienna e tornare a un pericoloso clima di assedio nei confronti della Repubblica Islamica.

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