Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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di Michele Paris

Le prime due tappe della prima visita ufficiale all’estero da presidente degli Stati Uniti di Donald Trump hanno subito chiarito le intenzioni della nuova amministrazione di mettersi alle spalle le relative frizioni tra Obama e gli alleati americani in Medio Oriente, in modo da compattare il fronte anti-sciita nella regione e promuovere in maniera ancora più aggressiva gli interessi strategici di Washington.

Trump è stato accolto lunedì a Tel Aviv dal primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dopo essere sbarcato da quello che è apparso significativamente come il primo volo diretto in assoluto tra questa città e la capitale dell’Arabia Saudita, Riyadh, dove il presidente americano aveva trascorso i due giorni precedenti.

Quello che il New York Times ha definito uno sforzo per “consolidare l’emergente riallineamento” tra i paesi a maggioranza sunnita e Israele contro l’Iran è l’aspetto probabilmente più rilevante della trasferta oltreoceano di Trump. Già il suo discorso del fine settimana in Arabia Saudita aveva fugato ogni dubbio sulle intenzioni USA di tornare a utilizzare l’immaginaria minaccia iraniana come elemento di coesione per gli alleati americani.

L’impegno in questo senso di Trump si è manifestato però a discapito della coerenza, com’è tipico della politica estera di Washington, e ha comportato, in maniera ugualmente poco sorprendente, un totale ribaltamento della realtà mediorientale. Di fronte a una platea fatta in buona parte di autocrati responsabili direttamente o indirettamente del proliferare del fondamentalismo islamista e della distruzione di interi paesi, il presidente americano ha in definitiva sposato integralmente le posizioni saudite, dipingendo la Repubblica Islamica come il vero pericolo e l’elemento destabilizzante della regione.

Mentre decine di milioni di elettori in Iran salutavano la conferma di Hassan Rouhani alla guida del loro paese, a uno dei regimi più brutali e oscurantisti del pianeta veniva insomma riconosciuto da Trump lo status di baluardo contro il terrorismo islamista. Un riconoscimento suggellato da nuovi accordi di forniture militari per cifre esorbitanti, cioè pari a 110 miliardi di dollari, con un’opzione per altri 350 miliardi nei prossimi dieci anni.

Il rilancio dell’alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita promette dunque di fondarsi sempre più sul sangue delle popolazioni mediorientali, visto che i piani di Washington e Riyadh prevedono con ogni probabilità l’intensificazione delle guerre criminali in Siria e Yemen, ma anche il possibile allargamento del conflitto all’Iran e la probabile imposizione di nuovi sacrifici al popolo palestinese.

Se mai fosse stato necessario, il riposizionamento dell’Arabia Saudita come punto di riferimento della strategia mediorientale da parte dell’amministrazione Trump conferma in definitiva lo stato di crisi in cui versano gli Stati Uniti, la cui apparenza di legittimità internazionale si fonda ormai sempre più sulla finzione, oltre che sulla forza brutale.

Gli effetti indesiderati di una simile strategia sono stati sottolineati nei giorni scorsi dalla stampa “liberal” americana, la quale ha spesso evidenziato come la già fragile illusione di una potenza dedita alla promozione della democrazia e dei diritti umani rischi di diventare insostenibile con un presidente che non si fa nessuno scrupolo formale nel sostenere pienamente dittature e autocrazie.

Se lo spettacolo raccapricciante di Trump in Arabia Saudita non fosse stato di per sé già sufficiente a chiarire i piani della Casa Bianca, i primi momenti della sua visita in Israele hanno fatto ancora più luce sull’evolversi della strategia americana in Medio Oriente.

Le prime parole di Netanyahu sono state in questo senso rivelatrici. Nel corso delle brevi dichiarazioni pubbliche dei due leader all’aeroporto di Tel Aviv, il primo ministro israeliano ha sottolineato la natura straordinaria del volo diretto di Trump da Riyadh, per poi auspicare che questo evento e la stessa prima visita del presidente USA in Medio Oriente rappresentino “la pietra miliare di un percorso verso la riconciliazione”.

L’avvicinarsi delle posizioni di Israele e delle dittature del Golfo Persico, favorito della comune percezione della minaccia iraniana, è un processo in atto già da tempo, ma solo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca sembra essere stato l’elemento catalizzatore, dopo le tensioni provocate tra gli Stati Uniti e i suoi due principali alleati mediorientali dalle modeste aperture dell’amministrazione Obama verso l’Iran.

In una conferenza stampa con il presidente israeliano, Reuven Rivlin, lunedì Trump è tornato ad attaccare l’Iran. Trascurando il fatto che Israele possiede un numero indefinito di armi nucleari non dichiarate, il presidente americano ha sostenuto che a Teheran “non deve essere permesso di dotarsi di testate atomiche”, nonostante non vi sia nessuna indicazione che questo paese intenda farlo.

L’insistenza sulla Repubblica Islamica, dopo le parole contro quest’ultima pronunciate a Riyadh, conferma il tentativo del presidente americano di connettere le preoccupazioni dei regimi sunniti, di Israele e degli stessi Stati Uniti per il comportamento attribuito all’Iran.

Il cinismo e il puro calcolo strategico su cui si basa il processo di riallineamento strategico tra gli alleati mediorientali degli USA che Trump intende promuovere nel corso della sua prima trasferta all’estero erano stati spiegati già settimana scorsa da una rivelazione del Wall Street Journal. I regimi sunniti del Golfo Persico avrebbero cioè proposto a Israele una normalizzazione dei rapporti in cambio di alcune concessioni da parte di Tel Aviv sulla questione palestinese e, più generale, del riavvio della farsa del processo di pace.

In sostanza, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono interessati a promuovere un qualche coordinamento strategico con Israele in funzione anti-iraniana/anti-sciita ma, viste le ripercussioni che ciò avrebbe sul fronte interno, hanno la necessità di mostrare di potere ottenere concessioni da Tel Aviv sulla situazione dei palestinesi.

Il quasi totale disinteressi dei regimi arabi sunniti per questi ultimi è però dimostrato dalle indiscrezioni pubblicate da vari giornali sul contenuto delle richieste fatte da Riyadh – con il consenso di Washington – al governo Netanyahu. Il Wall Street Journal ha parlato di un allentamento dell’assedio di Gaza e lo stop alla costruzione degli insediamenti in “alcune aree” della Cisgiordania occupata. Se ciò dovesse accadere, i regimi del Golfo sarebbero pronti a creare “linee di comunicazione” con Israele, nonché ad aprire negoziati per promuovere gli scambi commerciali e a consentire ai velivoli di questo paese di sorvolare i loro spazi aerei.

Il sito web The Electronic Intifada ha definito queste proposte “lontane anni luce” dai contenuti già “ultra-conciliatori” dell’iniziativa di pace saudita del 2002, quando Riyadh offrì a Israele la normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi in cambio della fine dell’occupazione di tutti i territori occupati nel 1967, la creazione di uno stato palestinese con Gerusalemme capitale e una “soluzione giusta” al problema dei rifugiati.

Più dettagliata è apparsa la rivelazione del sito Middle East Eye, il quale ha scritto domenica che la stessa Autorità Palestinese ha pronta una proposta di “pace” che include la cessione a Israele del 6,5% dei territori occupati in Cisgiordania. Questa quota è decisamente superiore a quella attorno alla quale si era discusso nelle precedenti iniziative di pace (1,9%) ed eccede addirittura quanto proposto nel 2008 dall’allora premier israeliano Ehud Olmert (6,3%). In quell’occasione, l’offerta israeliana era stata respinta da Mahmoud Abbas (Abu Mazen).

La nuova proposta dell’Autorità Palestinese sarà presentata a Trump nel corso del faccia a faccia del presidente americano con Abbas, previsto per martedì a Betlemme. Che il contenuto di essa sia stato rivelato da indiscrezioni giornalistiche la dice lunga sui timori dei leader palestinesi per le reazioni negative delle popolazioni arabe nei confronti di una bozza di accordo che sarebbe poco meno di una capitolazione a Israele.

Al possibile rilancio del “processo di pace” su queste basi ha dato non a caso il proprio sostanziale assenso lo stesso Netanyahu in occasione dell’incontro con Trump di lunedì. Qualsiasi intesa dovesse essere discussa, perciò, sarebbe solo una concessione ai paesi arabi, svuotata di significato e di qualsiasi beneficio per i palestinesi, ma utile solo al tentativo ultra-reazionario di compattamento del fronte anti-iraniano, anti-siriano e anti-Hezbollah promosso dagli Stati Uniti in Medio Oriente.

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