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di Fabrizio Casari

MANAGUA. Nove anni e mezzo di carcere e interdizione per 18 dai pubblici uffici. Questa la sentenza pronunciata dal giudice Sergio Mora nei confronti di Ignacio Lula Da Silva, per tutti “Lula”, fondatore del Partito dei Lavoratori ed ex Presidente della Repubblica per due mandati consecutivi. Le accuse? Sarebbe stato il destinatario di una tangente consistente in un appartamento. Accuse provate? No, si basano su articoli di stampa privi persino di citazioni delle fonti. In trecento pagine di requisitoria non c’è nemmeno un’accusa provata.

A sostegno della Procura c’è solo un contratto di acquisto o cessione di un appartamento che si dice sia della società OAS, ma è un contratto senza intestazione di nessuna società e senza nessuna firma, meno che mai quella di Lula o di suoi familiari. E allora?

E allora Lula è stato giudicato colpevole di corruzione e riciclaggio di denaro sulla esclusiva base di un teorema politico camuffato da inchiesta giudiziaria. La famosa “Lava Jato”, la Tangentopoli in formato carioca, concepita con un obiettivo chiaro e nemmeno troppo nascosto: sovvertire il quadro politico progressista scelto dagli elettori e sostituirlo con uno gradito a Washington e ai poteri forti locali. Per questo si doveva procedere su tre fronti contemporaneamente: abbattere il governo di Dijlma Roussef, colpire a fondo il PT e, in particolare, mettere Lula in condizioni di non nuocere per un bel pezzo.

Perché Lula? Perché oltre ad essere il leader naturale del suo partito (il primo partito del paese) e il politico di maggior rilievo della scena brasiliana, Lula è, a distanza di anni dalla sua uscita dal Planalto, l’uomo verso il quale la stragrande maggioranza dei brasiliani ripone la maggior fiducia. Proprio la dichiarata intenzione di Lula di ricandidarsi alla guida del Brasile ha fatto scattare l’allarme per chi ha intenzione di ricondurre il gigante carioca alle dipendenze di Washington e nuovo terreno di conquista di mano d’opera a basso costo e risorse naturali in regalo.

Si obietterà che un giudice si limita solo a prendere atto di prove inoppugnabili e che non ha interessi politici diretti. Ma è proprio così? In generale non è detto e nel caso specifico, secondo quanto rivelato da Wikileaks, i dubbi aumentano.

Il giudice Mora, infatti, fa parte di un gruppo di procuratori e giudici formati dagli Stati Uniti allo scopo di combattere la corruzione in America Latina. Frequentano corsi denominati “I ponti” impartiti direttamente dal Dipartimento di Stato USA, ed è con il sostegno statunitense che vengono poi insediati nelle diverse sedi operative dei rispettivi paesi del subcontinente.

Certo, è a suo modo una innovazione: fino a pochi anni orsono i corsi statunitensi erano destinati ai militari latinoamericani, cui veniva insegnata l’arte dell’obbedienza a Washigton, le procedure per i colpi di stato e le tecniche di tortura e scomparsa dei prigionieri (vedi Scuola delle Americhe a Panama o Fort Branning in Carolina del Nord), ora, che i mezzi d’ingerenza esterna si sono fatti più sofisticati, s’insegna a sovvertire e destabilizzare al riparo di ruoli civili. Ma questa inchiesta somiglia straordinariamente ad una riedizione del Plan Condor di triste memoria.

L’inchiesta “Lava Jato”, che per comodità potremmo definire la Tangentopoli brasiliana, poggia su un livello impressionante di incriminazioni, avvenute solo a seguito di dichiarazioni “spontanee” delle aziende corruttrici, che ad oggi coinvolgono 409 dirigenti del PT, 287 del Partito Democrático del Centro Brasiliano e altri 152 del Partito della Social Democrazia che sono stati condannati per episodi di corruzione. Beneficiari di questa sarebbero state diverse società, tra le quali la Odebrecht S.S., la OAS, la Embraer, la Petrobras, e la JBS.

Sembrerebbe, apparentemente, una buona notizia quella che vede la disarticolazione di un sistema di relazioni perniciose ed illegali che alterano il mercato interno brasiliano, ma se gli elementi probatori nel caso di Lula latitano, le conseguenze di questa operazione presentano invece un quadro certo: il ritorno d’interessi straordinari per i soliti noti.

Il sostanziale blocco operativo della Petrobras, ad esempio, permette ora alla Chevron di rientrare in gioco nel mercato brasiliano della estrazione e distribuzione del greggio (uno dei maggiori al mondo). Il blocco ventennale della spesa pubblica permette alla JP Morgan di rimettere le unghie nella privatizzazione delle pensioni voluta dal Presidente Temer. Temer infatti (tra i personaggi più corrotti del paese) ex alleato di governo di Dijlma Roussef, organizzò il golpe parlamentare che la depose e che ha dato il via - in alcuni casi senza nemmeno la legittimità parlamentare -  ad alcune “riforme” ispirate dalle multinazionali statunitensi.

Tra queste quella del lavoro, che prevede, tanto per dire, la durata della giornata lavorativa portata da 8 a 12 ore! Allo stesso tempo,  con la scusa della stabilità dei conti, viene stabilito il blocco della spesa pubblica per venti anni su sanità, istruzione, assistenza sociale e piani di sviluppo. Perché queste perle abbiano seguito si deve però spodestare il PT dal governo; impedire che la politica mantenga il controllo sulla gestione del paese è decisivo per il progetto delle multinazionali USA di invadere il Brasile con fondi speculativi multinazionali, destinati a depredare le sue immense risorse naturali e, attraverso la privatizzazione dei servizi, a realizzare quella liquidità di cui le multinazionali statunitensi hanno bisogno in un quadro internazionale recessivo.

Lula, e con lui il PT, rappresentano un ostacolo insormontabile ai progetti di conquista del Brasile ed è per questo che, pur senza prove, si tenta d’inibire il vecchio sindacalista e dirigente politico dalla ricandidatura. In questo senso la scelta di non procedere con l’esecuzione della sentenza, sospesa in attesa del secondo grado, è anche un modo per tenere sotto scacco l’ex presidente, che però gode dell’appoggio del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana.

Proprio ieri, anticipando di fatto la risoluzione del Foro di Sao Paulo (l’organismo che tiene insieme tutta la sinistra latinoamericana si troverà a Managua dal 16 al 19 luglio), il FSLN del Nicaragua, guidato dal Presidente Daniel Ortega, ha dichiarato ogni appoggio al leader del PT. Lula ha deciso di non restare a guardare e, con il sostegno del suo partito e di tutta la sinistra latinoamericana ha assicurato l’intenzione di dare battaglia per rovesciare il tavolo e riproporre la sua candidatura.

La quale, stando ai sondaggi indipendenti, vede il suo governo rimpianto da circa il 73% dell’elettorato brasiliano. Molti di più di quelli che metterebbero le mani sul fuoco sulla correttezza del giudice Moro.