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Le tensioni tra Washington e Ankara sembravano potersi allentare dopo l’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump, ma i fattori oggettivi che hanno spinto gli alleati NATO verso strade sempre più divergenti e l’aggravarsi delle contraddizioni delle politiche relative soprattutto alla Siria di entrambi i paesi sono tornati in fretta a prevalere.

Nel fine settimana scorso, l’ambasciata americana ad Ankara aveva annunciato la sospensione delle procedure di emissione dei visti temporanei ai cittadini turchi in ingresso negli Stati Uniti. Il comunicato ufficiale USA faceva riferimento in maniera generica agli “avvenimenti recenti”, ma la ragione immediata del provvedimento era dovuta al mandato di arresto, emesso dalle autorità turche, contro un impiegato locale del Consolato americano.

In precedenza, anche un altro cittadino turco dipendente del Consolato Generale americano di Istanbul era finito agli arresti, anch’egli come il suo collega sostanzialmente per avere partecipato alla cospirazione del luglio dello scorso anno, secondo il governo di Ankara pianificata dall’organizzazione guidata dal predicatore Fehtullah Gulen, da tempo in auto-esilio negli Stati Uniti e con ogni probabilità appoggiato dalla CIA.

Alla misura decisa da Washington ha subito risposto la Turchia, la cui ambasciata negli USA ha utilizzato in pratica le stesse parole per congelare i visti brevi concessi ai cittadini americani. Le rispettive decisioni hanno scatenato una serie di recriminazioni e accuse, con il governo degli Stati Uniti che ha condannato gli arresti, i quali si aggiungono a quelli già eseguiti con la stessa accusa contro una decina di americani, e quello turco che si è detto “rattristato” dallo stop ai visti.

Erdogan, da parte sua, ha lasciato intendere di volere utilizzare uno o più detenuti americani in Turchia come pedine di scambio per ottenere l’estradizione del rivale Gulen. In particolare, il presidente turco ha fatto riferimento al pastore americano Andrew Brunson, anch’egli detenuto con l’accusa di avere preso parte alla pianificazione del colpo di stato.

Il fattore che incide in maniera decisiva sul precipitare dei rapporti tra USA e Turchia è in ogni caso il processo di riorientamento strategico intrapreso almeno nell’ultimo anno da Erdogan e che entra in conflitto con gli interessi americani in Medio Oriente e non solo.

Il risultato di questa nuova attitudine del governo di Ankara è in primo luogo il rafforzamento delle relazioni della Turchia con Russia e Iran, ovvero i due principali sostenitori del regime siriano di Assad, contro cui Washington ha orchestrato il conflitto in corso dal 2011.

A influire pesantemente sul peggioramento dei rapporti tra Washington e Ankara è appunto l’inversione di rotta di Erdogan nella guerra in Siria. Un’inversione ancora non del tutto completa, come dimostrano i legami probabilmente persistenti con la filiale siriana di Al-Qaeda, ma che ha visto di fatto il governo turco abbandonare gli sforzi per rovesciare il regime di Damasco, almeno per il prossimo futuro.

Il motivo che ha innescato l’evoluzione delle priorità strategiche di Ankara è il ruolo sempre più importante assunto dalle formazioni armate curde nella crisi siriana e, in particolare, nel nord del paese al confine con la Turchia. Le milizie curde sono infatti diventate da tempo le principali beneficiarie dell’appoggio americano nella guerra allo Stato Islamico (ISIS), sollevando le ire di una Turchia che continua a considerarle come formazioni terroriste legate al PKK che opera all’interno dei propri confini.

Il timore turco per l’eventuale creazione di un’entità autonoma o indipendente oltre il confine meridionale, con la possibilità di un contagio sul proprio territorio, ha così spinto Erdogan a intervenire militarmente in Siria. Essendo però il vero obiettivo i gruppi armati curdi sostenuti dagli americani, la Turchia ha agito in larga misura senza coordinarsi con gli USA, bensì nel quadro dei negoziati di Astana, in Kazakistan, promossi da Russia e Iran.

L’intreccio di obiettivi divergenti in Siria ha reso la situazione più che mai esplosiva proprio alla vigilia di quella che sembra un’imminente uscita di scena dello Stato Islamico grazie soprattutto allo sforzo congiunto di Russia, Iran, Siria e Hezbollah. Proprio nei giorni scorsi, infatti, Erdogan ha ordinato il ritorno delle truppe turche in Siria per condurre operazioni nella provincia di Idlib, come previsto dagli accordi di Astana sulla creazione di aree specifiche in cui implementare possibili tregue.

La nuova presenza in Siria di truppe turche, con tutte le ambiguità che essa comporta, rischia così di infiammare nuovamente il conflitto, nonostante gli obiettivi esattamente opposti dell’intesa tra Ankara, Mosca e Teheran. D’altra parte, gli Stati Uniti, che già stanno alimentando più o meno clandestinamente la resistenza jihadista contro le forze governative siriane e quelle russe a Deir Ezzor, sembrano prospettare un intervento anche a Idlib, ufficialmente per combattere la presenza di al-Qaeda.

La complicazione dei rapporti turco-americani sta suscitando parecchia apprensione a Washington, vista la tradizionale importanza di Ankara nella stratega euro-asiatica degli Stati Uniti. L’ammiraglio in pensione James Stavridis, già comandante della NATO durante l’amministrazione Obama, ha ad esempio invitato recentemente il governo del suo paese a “fare qualsiasi cosa per assicurare una relazione strategica razionale ed equilibrata” con la Turchia.

In gioco vi è in primo luogo la presenza di circa 2.700 soldati americani ospitati dalla base turca di Incirlik, vicina al confine siriano. Da qui partono i velivoli militari americani impegnati ufficialmente contro l’ISIS in Iraq e in Siria, ma la base è soprattutto parte della struttura militare che permette la presenza continua degli USA in Medio Oriente.

Da ricordare è poi anche il crescente richiamo per la classe dirigente e il business turco delle sirene cinesi, ovvero l’interesse sempre più forte a fare del loro paese uno snodo chiave dell’ambizioso progetto infrastrutturale e di integrazione economica euro-asiatica promosso da Pechino.

Secondo il quotidiano Hürriyet, i diplomatici di USA e Turchia sono comunque in contatto per far rientrare le tensioni e cancellare i recenti provvedimenti relativi ai visti. Se anche nei prossimi giorni la vicenda dovesse risolversi di comune accordo, la decisione presa in prima battuta da Washington segnala ad ogni modo un malessere profondo nei rapporti tra gli alleati.

Un commento pubblicato martedì dallo stesso giornale turco ha ricordato come la sospensione dei visti è una misura che non venne adottata da Washington nemmeno nel pieno della crisi dei rapporti bilaterali del 1975, quando l’allora governo di Süleyman Demirel chiuse la base di Incirlik ai velivoli americani operanti al di fuori della NATO in risposta a un embargo sulle armi imposto dagli USA ad Ankara.

Soprattutto agli osservatori turchi non è infine sfuggito come lo stop ai visti appena deciso a Washington metta di fatto il loro paese sullo stesso piano di quelli già inclusi nel discusso provvedimento anti-immigrati dell’amministrazione Trump per impedire gli ingressi negli Stati Uniti.

Tra di essi figurano rivali o ex rivali strategici degli USA come Iran, Siria, Libia, Corea del Nord e Venezuela, i cui governi sono o sono stati bersaglio di guerre sanguinose oppure risultano esposti alla minaccia di sanzioni punitive o di una possibile aggressione militare americana.