Georgia, gli 'agenti' dell’Occidente

di Mario Lombardo

Il parlamento georgiano ha approvato questa settimana in prima lettura una controversa legge sugli "agenti stranieri", nonostante le proteste dell'opposizione e gli avvertimenti di Bruxelles che la legislazione potrebbe mettere a rischio le ambizioni del paese di aderire all’Unione Europea. La misura, ufficialmente nota come "Legge sulla trasparenza dell'influenza straniera", ha ricevuto...
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La memoria scomoda di Euskadi

di Massimo Angelilli

Il prossimo 21 aprile si svolgeranno le elezioni amministrative nei Paesi Baschi. Ovvero, il rinnovamento del Parlamento Autonomo, incluso il Lehendakari - Governatore che lo presidierà e i 75 deputati che lo integreranno. Il numero delle persone aventi diritto al voto è di circa 1.800.000, tra le province di Vizcaya Guipúzcoa e Álava. Il bacino elettorale più grande è quello biscaglino comprendente Bilbao, mentre la sede del Parlamento si trova a Vitoria-Gasteiz, capitale dell’Álava. Le elezioni regionali in Spagna, come d’altronde in qualsiasi altro paese, non sono mai una questione banale. Men che meno quelle in Euskadi. Si inseriscono in una stagione particolarmente densa di ricorso alle urne, iniziata con l’appuntamento...
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Il governo regionale curdo del presidente, Masoud Barzani, aveva approfittato nel 2014 della fuga dell’esercito iracheno dalla provincia di Kirkuk, in seguito all’arrivo degli uomini dello Stato Islamico, per occupare l’omonima città e, soprattutto, i pozzi petroliferi che la circondano.

Kirkuk era però al di fuori dei confini del territorio garantito al controllo curdo dopo l’invasione americana del 2003 e, in seguito al processo di arabizzazione degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la città è oggi etnicamente mista, essendo popolata non solo da curdi ma anche da arabi sunniti e sciiti, da turkmeni e cristiani assiri.

L’offensiva finora in larga misura incruenta delle forze di Baghdad era da tempo nei piani del presidente iracheno, Haider al-Abadi. Il governo centrale non ha mai ratificato l’occupazione curda di Kirkuk e ha fin dall’inizio contestato la gestione in autonomia delle esportazioni di petrolio – dirette verso la Turchia – da parte del clan Barzani.

La decisione di quest’ultimo e del suo Partito Democratico del Kurdistan (KDP) di far tenere il referendum sull’indipendenza del 25 settembre, giudicato illegale da Baghdad, anche nella provincia di Kirkuk ha indubbiamente accelerato la decisione del governo iracheno di riconquistare il controllo del territorio perduto tre anni fa. Una decisione trasformatasi in azione anche grazie al recedere della minaccia dello Stato Islamico nel paese.

La scommessa di Barzani, fatta probabilmente anche per rimediare alla sua posizione sempre più precaria sul fronte interno, si è rivelata così perdente, nonostante i risultati avessero indicato una larga vittoria degli indipendentisti. Il referendum era stato condannato da praticamente tutti i paesi coinvolti nelle vicende mediorientali, ad eccezione di Israele, e la stessa classe dirigente curda era profondamente divisa sulla questione.

Il clan rivale dei Barzani, quello guidato dal recentemente defunto ex presidente iracheno, Jalal Talabani, e dalla sua Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), era infatti contrario al referendum e queste stesse divisioni interne hanno finito per facilitare il ritorno a Kirkuk delle forze irachene.

L’isolamento imposto a partire dal referendum di fine settembre alla regione autonoma curda e la perdita del controllo di buona parte dei pozzi petroliferi, da cui il governo Barzani traeva le proprie risorse, hanno dunque assestato un colpo quasi mortale alle aspirazioni del Kurdistan iracheno.

L’intervento di Baghdad ha allo stesso tempo evidenziato la duplicità e le contraddizioni della politica mediorientale degli Stati Uniti, responsabili in definitiva anche delle tensioni che rischiano di scivolare in un vero e proprio conflitto tra il governo iracheno e quello autonomo curdo.

Washington collabora sia con i peshmerga curdi sia con l’esercito iracheno, entrambi parte della coalizione che combatte ufficialmente contro lo Stato Islamico. L’amministrazione Trump ha mostrato perciò evidenti segnali di imbarazzo dopo questi ultimi eventi, sia pure manifestando pubblicamente la volontà di rimanere neutrale di fronte allo scontro in atto in Iraq.

In realtà, gli Stati Uniti hanno dato una sorta di tacito assenso all’iniziativa del governo di Baghdad, confermato ad esempio dall’insistenza nel condannare il referendum sull’indipendenza del Kurdistan e dall’inazione delle migliaia di soldati americani presenti in territorio iracheno.

Le ambizioni curde, anche se in parte utili al progetto di balcanizzazione di paesi come Iraq e Siria, visto da molti con favore a Washington, rappresentano per gli USA un fattore destabilizzante della regione, in un momento nel quale l’obiettivo primario resta il contenimento dell’Iran e dell’asse anti-americano. L’amministrazione Trump, perciò, si è vista costretta a operare una tacita scelta di campo di fronte all’iniziativa di Baghdad.

I fatti degli ultimi giorni confermano anche la progressiva marginalizzazione degli USA in Medio Oriente. L’ingresso a Kirkuk delle forze irachene e delle milizie sciite filo-iraniane è avvenuto in maniera rapida e quasi indolore grazie anche alla passività dei gruppi armati dell’Unione Patriottica del Kurdistan, con ogni probabilità defilatisi deliberatamente in seguito a un qualche accordo sottoscritto con la mediazione di Teheran.

Singolarmente, come ha fatto notare qualche commentatore, proprio mentre l’amministrazione Trump si è imbarcata in una nuova offensiva contro la Repubblica Islamica, additata come sponsor numero uno del terrorismo internazionale, questo stesso paese ha in sostanza contribuito a evitare, almeno per il momento, il precipitare dell’Iraq in un nuovo sanguinoso conflitto settario.

L’apertura di un nuovo fronte di scontro in Medio Oriente è comunque tutt’altro che scongiurata e la responsabilità principale della situazione attuale è da attribuire proprio agli Stati Uniti. L’ostentata neutralità di Washington nella disputa tra Baghdad ed Erbil attorno alla sorte della provincia di Kirkuk non può far dimenticare l’incoraggiamento delle ambizioni dei curdi, utilizzati dagli USA in Iraq per mantenere le divisioni nel paese e limitare l’influenza iraniana e, parallelamente, in Siria per condurre la guerra contro il regime di Assad e quella più o meno reale contro l’ISIS.

La disponibilità di determinate sezioni delle élites curde ad assecondare le manovre americane sta però prevedibilmente per trasformarsi in un boomerang. L’avallo di Washington dell’operazione di Baghdad a Kirkuk ha di fatto disarmato il clan Barzani al potere nel Kurdistan iracheno, seppellendo forse definitivamente le aspirazioni indipendentiste.

In Siria, allo stesso modo, nonostante la recentissima “liberazione” di Raqqa dall’ISIS grazie al contributo delle milizie a maggioranza curda, il cerchio si sta per stringere sotto l’offensiva delle forze di Damasco, appoggiate da Russia, Iran e Hezbollah, e della Turchia, il cui governo intende a tutti i costi impedire la formazione di un’entità autonoma o indipendente curda oltre i propri confini meridionali.

Se gli ambienti “neo-con” americani insistono per un maggiore impegno degli Stati Uniti in Siria, che provocherebbe un nuovo aggravarsi del conflitto, sono in molti a credere che Washington potrebbe alla fine optare per un relativo disimpegno dal paese mediorientale, visti gli equilibri sul campo dopo l’intervento di Mosca. In quest’ultimo caso, sarebbe inevitabile un epilogo non molto diverso per i curdi siriani da quello a cui, proprio in queste ore, si sta assistendo nel vicino Iraq.

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