Dopo gli esordi da rottamatore, Matteo Renzi è diventato peggio di quello che voleva demolire. Nemmeno nella Dc si è mai vista un’occupazione così dispotica delle liste elettorali, un’umiliazione così clamorosa delle minoranze in dissenso con la voce del Capo. E a quale scopo? Non certo di vincere e governare. Al contrario, l’obiettivo del segretario è prevenire la sconfitta.

 

 

Ma andiamo con ordine e partiamo dai numeri. Stando ai sondaggi, alle elezioni il Pd dovrebbe attestarsi poco sopra il 24%. Secondo Renzi, con il debole apporto degli alleati di +Europa e Insieme, la coalizione arriverà intorno al 26%. Fanno circa 200 seggi complessivi tra Camera e Senato. Di questi, 4-5 andranno ai partitini coalizzati, 10-15 agli orlandiani (il ministro della Giustizia ne aveva chiesti prima 40, poi 25), 5-6 alla corrente che fa capo al governatore pugliese Emiliano, 4-5 a Franceschini e un’altra decina se la spartiranno i renzianissimi Orfini e Martina. Fatti due calcoli, significa che il segretario ha calato dall’alto ben 155 nomi: come dire che più di tre quarti dei gruppi parlamentari dem saranno composti da suoi fedelissimi.

 

“Non ho messo alcun veto”, si difende Renzi, e in un certo senso ha ragione. Ha fatto di peggio: ha abusato del partito, vendicandosi con gli interessi di quando nel 2014 gli fu dato il 10% degli eletti malgrado il 40% da lui incassato alle primarie.

 

“La squadra è fortissima, giusta per andare a vincere”, continua il segretario, ma si tratta di un’altra bugia. Con il Rosatellum, la coalizione guidata dal Pd non ha alcuna speranza di governare da sola. L’unico risultato pronosticabile è una frammentazione del Parlamento in tre, con l’asse Pd-Forza Italia quale unica via per rabberciare una maggioranza, a meno di improbabili colpi di scena in casa 5 Stelle. Renzi lo sa benissimo e ha scelto la prova di forza sulle liste proprio per poter gestire in serenità l’ennesimo tradimento degli elettori. Vuole essere sicuro che nessuno gli ricordi i suoi “mai più con Berlusconi”, parenti stretti dei “mi ritiro dalla politica se perdo il referendum”.

 

C’è poco da stupirsi. L’ennesima prova da guitto accentratore è assolutamente coerente con lo stile politico di Renzi, incapace di discutere, di ascoltare, di cambiare idea. Come sempre, il segretario tira dritto ignorando tutti i segnali di allarme che lo circondano. Del resto, ha sempre voluto trasformare il Pd in una forza genuinamente di centro, cancellando dal partito la componente socialista, e a questo punto si può dire che la missione sia compiuta. Di sinistra, nel Partito democratico, non è rimasto più nulla. Nemmeno un’intenzione.

 

E poco importa che il Paese (come mezza Europa) stia gridando ormai da anni che c’è bisogno di sinistra. A Renzi non interessa. Gli italiani odiano giustamente il Jobs Act, ma lui continua a ripetere che quella legge è stata un grande successo. Lo fa anche in campagna elettorale, alimentando inconsapevolmente il malanimo degli elettori nei suoi confronti. L’unica cosa che gli sta a cuore è tenere in vita il suo sistema di potere, anche a costo di coprirsi di ridicolo candidando Boschi in Trentino e in Sicilia. “Andiamo a vincere”, ripete ogni giorno. Non vincerà, ma grazie a queste liste avrà le mani libere per sopravvivere. Se necessario, anche tra le braccia di Berlusconi.

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