La performance di Donald Trump a Helsinki a fianco di Vladimir Putin è stata immediatamente bollata dai media ufficiali, dalla maggior parte della classe politica e dagli ambienti dell’intelligence americani come uno dei punti più bassi toccati dall’ufficio della presidenza e, forse, dagli stessi Stati Uniti. A giudicare dall’incredibile polverone scatenato in patria, in poco meno di un’ora di conferenza stampa tra i due leader, eventi come quelli di Pearl Harbor, del Golfo del Tonchino o dell’11 settembre sono sembrati passare in secondo piano per lasciare spazio all’umiliazione di un intero paese, venduto dal suo stesso presidente al dittatore criminale che risiede al Cremlino.

 

Le pressioni su Trump sono state subito tali che, al suo rientro a Washington, quest’ultimo ha proposto una parziale rettifica, come al solito pasticciata, delle parole pronunciate in Finlandia sul “Russiagate”. Trump e i suoi consiglieri hanno puntato su un errore verbale che avrebbe causato un fraintendimento sulla sua opinione circa l’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016. Mercoledì, in un controverso scambio di battute con un giornalista, Trump avrebbe alla fine lasciato nuovamente intendere di non avere fiducia nelle conclusioni dell’intelligence americana.

 

 

A far cambiare versione all’inquilino della Casa Bianca, almeno temporaneamente, è stata la massiccia campagna mediatica, a cui ha partecipato anche buona parte del Partito Repubblicano, inclusi i suoi leader, diretta contro un governo che deve abbandonare ogni velleità di dialogo con Mosca e allinearsi in modo inequivocabile all’orientamento ferocemente anti-russo promosso da determinate sezioni dell’apparato di potere americano.

 

Nel momento in cui Trump ha messo in discussione pubblicamente le posizioni sostenute dall’intelligence e dalla macchina della sicurezza nazionale, oltretutto all’estero e in compagnia di un leader di una potenza nemica, è stato subito evidente come lo scontro con la Russia sia una necessità ormai condivisa quasi unanimemente dentro le strutture di potere degli Stati Uniti, senza troppi riguardi per le possibili conseguenze.

 

Numerosi esponenti repubblicani al Congresso hanno essi stessi criticato il presidente, spesso aspramente. Che ciò sia avvenuto nonostante le ovvie ragioni di opportunità politica e la vicinanza a un voto che potrebbe rimescolare gli equilibri di Camera e Senato, chiarisce a sufficienza quanto grande sia la posta in gioco nei rapporti con la Russia.

 

Il leader repubblicano al Senato, Mitch McConnell, e lo “speaker” della Camera, Paul Ryan, hanno addirittura ipotizzato un intervento legislativo per riparare ai danni fatti dal loro presidente con una risoluzione da votare in aula per ribadire la denuncia delle “aggressioni” russe e l’appoggio di Washington agli alleati NATO. Altri ancora hanno minacciato nuove sanzioni punitive contro Mosca.

 

La spirale di critiche al presidente si è a un certo punto quasi tramutata in una competizione per proporre la soluzione più radicale in grado di rassicurare l’apparato dell’intelligence offeso dal presidente. Abbastanza prevedibile è stata così la proposta di rafforzare il controllo sulle attività di hackeraggio russe per evitare altre “interferenze” nelle prossime elezioni di metà mandato a novembre. Decisamente originale e al limite del delirante è apparsa invece quella del senatore repubblicano John Barrasso, il quale, secondo quanto riportato dal New York Times, vorrebbe spingere per legge l’Europa a sostituire le forniture di gas russo con quello americano.

 

Da più parti, la condanna di Trump si è accompagnata poi all’accusa di “tradimento”, talvolta con l’incitazione, nemmeno troppo velata, al colpo di stato attraverso appelli più o meno espliciti alle forze armate americane.

 

Significativamente, i toni più accessi sono stati quelli dei leader del Partito Democratico, trasformatosi ormai in tutto e per tutto nel portavoce dell’establishment militare e dell’intelligence USA. I numeri uno dell’opposizione al Senato e alla Camera, rispettivamente Chuck Schumer e Nancy Pelosi, hanno agitato l’ipotesi di mobilitazioni e iniziative di legge per costringere Trump a invertire la rotta della politica estera americana e raddoppiare gli sforzi nell’esercitare pressioni sulla Russia.

 

Il livello di intensità dell’agitazione contro Trump dopo il vertice di Helsinki è destinato a salire ancora nei prossimi giorni, soprattutto se ci saranno annunci di iniziative per far proseguire il dialogo con Mosca, ad esempio sulle crisi in Siria o in Ucraina. La campagna in atto serve a consolidare l’immagine del presidente come un fantoccio del Cremlino con l’inclinazione al tradimento, in modo da favorire un eventuale colpo di mano, quasi certamente con un’escalation dei procedimenti legati al “Russiagate”.

 

È probabile anzi che in determinati ambienti di potere la decisione di rimuovere in un modo o nell’altro Trump sia già stata presa, ma il passo decisivo rimane per il momento inattuato perché le manovre anti-russe e contro la Casa Bianca, malgrado lo spazio che trovano sui media, suscitano poco o nessun interesse tra la popolazione americana. Ancora più impopolare sarebbe una spallata a un presidente eletto per mano di un establishment il cui discredito aveva oltretutto favorito la sua vittoria su Hillary Clinton quasi due anni fa.

 

Un recente sondaggio di Gallup sulle priorità degli elettori in vista del voto di novembre indica come esse abbiano a che fare quasi del tutto con questioni di carattere economico e sociale, mentre il pericolo o le “interferenze” della Russia sono al centro degli interessi di un numero di persone talmente piccolo da essere a malapena rilevabile.

 

L’ondata di isteria suscitata dal faccia a faccia tra Trump e Putin ha mostrato infine un altro aspetto delle dinamiche politiche odierne negli Stati Uniti. La vera opposizione contro la Casa Bianca, soprattutto quella condotta dal Partito Democratico, viene cioè in larga misura da destra.

 

Gli oppositori dell’amministrazione Trump chiedono infatti un atteggiamento ancora più duro nei confronti di Mosca, riflettendo una strategia reazionaria che, escludendo la possibilità di ridurre la seconda potenza nucleare del pianeta a stato-vassallo degli USA, non può che condurre a un catastrofico conflitto armato.

 

La fermezza e la rapidità con cui la campagna anti-Trump si è attivata e la stessa parziale marcia indietro del presidente contrastano poi con la dichiarata impotenza dei suoi oppositori, ancora una volta in particolare tra i democratici, quando si tratta di altre questioni. I leader del Partito Democratico, nonostante la retorica, hanno ad esempio desistito a tutti gli effetti da qualsiasi vera battaglia o mobilitazione per combattere le numerose iniziative ultra-reazionarie, anti-democratiche o anti-costituzionali dell’attuale amministrazione.

 

Ciò è accaduto, tra l’altro, con la questione dell’immigrazione, con i tagli alle tasse per ricchi e corporation e, più di recente, con la nomina, soggetta a ratifica del Senato, di un nuovo giudice della Corte Suprema di estrema destra.

 

In definitiva, per quanto concerne la classe dirigente americana, il presidente Trump ha facoltà di violare diritti umani e norme democratiche o adottare politiche ferocemente classiste, ma non può in nessun modo mettere in discussione gli orientamenti strategici consolidati che vedono la Russia di Putin al primo posto tra le minacce alla supremazia globale degli Stati Uniti.

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