Con la tempesta di insulti che il Movimento 5 Stelle ha fatto piovere sulla stampa italiana dopo l’assoluzione della sindaca di Roma, Virginia Raggi, siamo passati dall’era della macchina del fango a quella della girandola del fango. Una volta a spalare letame erano principalmente i gruppi editoriali, che pur di screditare gli avversari politici non esitavano a inventare notizie. Oggi questa tendenza si è duplicata, producendo una forza uguale e contraria: sono i politici che, per ricompattare le fila e riguadagnare credibilità, spalano letame contro i giornalisti.

 

Intendiamoci, qui non si fa autodifesa in nome della categoria. Anzi, molte delle critiche che i grillini muovono contro la stampa hanno fondamento, altre sono perfino condivisibili. Ma non è questo il punto.

 

 

La vera posta in gioco è uno dei fondamenti dello stato democratico. Anche se l’Italia avesse l’informazione più corrotta del mondo, chi è al governo avrebbe comunque l’obbligo morale di astenersi da qualsiasi valutazione sui giornalisti. La ragione è ovvia: chi ha il potere deve gestirlo nel nome di tutti, anche (e soprattutto) di chi non la pensa come lui. In un sistema ce non sia una maionese impazzita, i giornali valutano l’operato del governo, non viceversa.

 

La democrazia di un Paese si misura proprio su quanto e come i cittadini sono liberi di dissentire dai potenti. Di conseguenza, attaccare la stampa in blocco è un comportamento antidemocratico, perché vuol dire infilare nello stesso calderone anche i professionisti onesti che esercitano il loro diritto costituzionale di criticare il governo. E poi non si capisce perché mai i giornali non dovrebbero investigare sui flagellatori di tutti. Chi accusa sarà accusato, è legge del contrappasso che, non afferendo a testi universitari, anche i 5 Stelle dovrebbero poter comprendere.

 

Le frasi uscite dalla bocca di Di Maio non hanno precedenti per il ruolo di Vicepremier: “La vera piaga di questo paese è la stragrande maggioranza dei media corrotti intellettualmente e moralmente. Gli stessi che stanno facendo la guerra al governo provando a farlo cadere con un metodo preciso: esaltare la Lega e massacrare il M5S sempre e comunque”. 

 

Forse il vicepremier dimentica che così come non era colpa dei giornalisti il rinvio a giudizio Raggi, non è responsabilità della stampa se negli ultimi sei mesi la Lega ha raggiunto e superato nei sondaggi il Movimento 5 Stelle, che pure lo scorso 4 marzo aveva ottenuto il doppio dei voti del Carroccio. Di Maio vorrebbe scaricare sull’editoria una colpa che è solo sua: a parità di esposizione mediatica, Salvini lo ha surclassato politicamente, passando da azionista di minoranza del governo a Premier ombra.

 

Di Battista, con punte di trivialità assoluta, accusa un’intera categoria di viltà, ma è lui a non avere il coraggio di fare i nomi. Perché? Perché sparare nel mucchio fa comodo, perché così facendo si scredita anche chi critica il governo legittimamente.

 

Peccato che un vero uomo di Stato dovrebbe fare esattamente il contrario: non aprire mai bocca sulla stampa proprio per tutelare la libertà di chi vuole dissentire. In una democrazia, per malata che sia, i ruoli sono ben distinti: il governo deve governare e la stampa deve criticare. Non tanto e non solo perché è suo dovere “istituzionale” quello di denunciare errori, ipocrisie ed incompiutezze delle forze politiche tutte, quanto perché i media sono parte integrante di quel sistema di forze intermedie che si collocano tra governanti e governati e il ruolo di controllori del potere serve proprio a difenderne dagli abusi.

 

Il tentativo di fare del sistema mediatico un dipartimento della propaganda governativa è iscritto nelle storia e nessuno vi si è sottratto. Basta vedere la vicenda cialtrona della RAI, dove soprattutto i 5 Stelle, da opposizione, chiedevano al governo di tenere le mani distanti ma che, da governo, hanno tutt’altro atteggiamento.

 

Di contro, la parte del sistema mediatico più intimamente legata ai poteri occulti e palesi di questo Paese, ha inteso trasformare i gruppi editoriali in partiti, con le redazioni arruolate con elmetti a prova di verità, diffusione quotidiana di tesi politiche in barba all’informazione e di manipolazione delle notizie a fini politici e cessione di ogni principio deontologico in favore del peso specifico del proprio editore negli equilibri di sistema.

 

Insomma i grandi gruppi editoriali possono anche risparmiarci l’ipocrita e fuori luogo appello alla libertà di stampa, che loro hanno sempre inteso come libertà dei loro editori di organizzare le operazioni politiche e di potere; ma chi governa non può nemmeno immaginare di poterlo fare al riparo della critica, giusta o sbagliata, corretta o sporca che sia, perché non vi sono - o almeno non dovrebbero esserci - luoghi e persone al comando che siano per definizione inesplorabili e indiscutibili.

 

Dunque, piuttosto che minacciare i giornali di leggi punitive dal sapore di olio di ricino mentre ci si oppone alle norme che obbligano i grandi colossi internazionali delle notizie (spesso produttori a ciclo continuo di fake news), sarebbe opportuno accettare la sfida delle parole promesse compiendo atti di governo. Se si è capaci di farlo.

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