Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Alessandro Iacuelli

Dopo il referendum del 1987, si è tornato a parlare di nucleare civile in Italia dal 21 gennaio 2005, giorno dell'approvazione di una legge apposita sul riordino del settore energetico, meglio conosciuta come "Legge Marzano". L'allora ministero delle Attività Produttive, a tale proposito, fece notare che "in teoria nulla osta perché in Italia si torni all'energia di origine nucleare, visto che i referendum del 1987 riguardavano l’eliminazione dei contributi in denaro da parte dello Stato".

Nonostante questo, la spinta verso il nucleare poteva avere un senso alla fine degli anni '80, avendo ancora l'Italia un mercato dell'energia pubblico e sotto controllo statale, impianti pronti a ripartire e staff tecnico-scientifico tra i migliori al mondo. Ma a fine anni '80, sull'onda del referendum e soprattutto sull'onda del disastro di Chernobyl, tale spinta non ci fu. Si preferì invece, anche a livello governativo, approfittare della sconfitta del nucleare per fare un altro giro di vite con la metanizzazione, convertendo (in modo peraltro costosissimo) a metano molte centrali elettriche funzionanti con altri combustibili.

Non si sta qui a sindacare se la scelta della metanizzazione sia stata giusta o meno ma, una volta presa quella strada, cambiarla completamente adesso significherebbe pagare costi che nessun investitore privato affronterebbe, scaricando quindi sul settore pubblico il compito di pagare. Vero è che il metano dobbiamo comprarlo dall'estero, ma non è certo la via nucleare quella che garantirebbe l'indipendenza energetica: oggi le competenze per riportare il nucleare in Italia non ci sono più.

Moltissimi dei progettisti e tecnici dell'epoca d'oro del nucleare italiano sono andati in pensione, senza trasmettere alle nuove generazioni di tecnici quelle competenze acquisite. Pertanto il nucleare in Italia non sarebbe certamente un "nucleare italiano", ma sarebbe realizzato con tecnologie, personale e aziende estere. Non sarebbe neanche un "nucleare pubblico", in un mercato privatizzato, dove l'unica spinta è il profitto a fine anno. Spinta al profitto che, in nome della sicurezza nucleare, dovrebbe passare assolutamente in secondo piano.

Aprire una centrale nucleare, o riattivarne una in disuso da anni, non è una cosa semplice: servono miliardi di Euro, senza contare il costo del loro mantenimento (i sistemi di sicurezza e quelli per il raffreddamento hanno un costo elevatissimo). Tutti questi soldi, se sottratti ai cittadini mediante erogazione di fondi pubblici, difficilmente andranno per benessere del Paese, nonostante la propaganda in corso: se i profitti del nucleare degli anni '60 e '70 andavano nelle casse dell'Enel (pubblica), questa volta finiranno sempre e solo nelle casse delle multinazionali dell’energia privatizzata.

Il nucleare, per certi versi, è forse peggio del petrolio e del carbone e non è affatto sostenibile e “non inquinante”: produce scorie radioattive non smaltibili (se non in migliaia di anni) che saranno sepolte nelle profondità dei mari oppure sotto milioni di metri cubi di cemento. I punti cardine sono quindi: finanziamenti ed entità degli investimenti necessari, contrarietà delle popolazioni interessate, stato delle competenze, sicurezza, smaltimento dei rifiuti. Su ciascuno di questi punti in Italia si soffre di decenni di arretratezza e di stasi.

Accusiamo un ritardo nello sviluppo di validi sistemi alternativi, prima di tutto il solare e l'eolico, validi strumenti che potrebbero risolvere diversi problemi, se si investisse in ricerca e sviluppo. Con gli stessi soldi da investire per tre o quattro centrali nucleari sarebbero possibili in dieci anni scoperte sul solare che ora possono apparire impensabili. Invece la strategia è di investire in centrali nucleari, che sono pur sempre delle macchine a vapore, per garantire appena il 25% del fabbisogno energetico italiano. Fra trenta anni, tra l'altro.

Tutto questo senza considerare che non abbiamo affatto risolto, ma neanche affrontato, il problema delle scorie. Quella nucleare è un'intera filiera, dalla produzione del combustibile in poi, e stiamo dando inizio alla costruzione delle centrali senza avere preparato un piano di smaltimento delle scorie di tutti gli impianti. Non solo manca ancora l'individuazione del deposito nazionale, ma anche dei centri temporanei di stoccaggio, che sono necessari. Tutto questo non viene affrontato, perché sarà un problema che diventerà cruciale tra 20 o 30 anni, che è un tempo che non interessa a nessun governo.

Quel che è certo è che in caso di ritorno al nucleare in Italia non si tratterebbe di un nucleare italiano, ma di un insieme di politiche energetiche e tecnologie importate dall'estero. Le stesse centrali verrebbero costruite da multinazionali energetiche estere e, data la natura assolutamente anomala del mercato energetico italiano (totalmente privatizzato), l'Italia diverrebbe terra di conquista da parte dei gestori stranieri proprietari delle centrali.

Che occorra una svolta nel settore energetico italiano è indubbio. Sbaglia certo ambientalismo radicale italiano, che ripete ossessivamente che i problemi d'ordine energetico derivano solo dalla necessità di far girare soldi. Il problema è reale: l'Italia ha un parco centrali basato fortemente su petrolio e metano, due combustibili che vanno reperiti all'estero, non sono rinnovabili e sono fortemente inquinanti.

Non dimentichiamo che l'Italia ha firmato il Protocollo di Kyoto, ben sapendo di non essere in grado di mantenere l'impegno, ma in ogni caso ora dovrebbe in qualche modo cercare di contenere le emissioni in atmosfera, e non saranno certo i blocchi del traffico nelle grandi città a risolvere il problema.

All'indomani del grande black-out nazionale del 28 settembre 2003, causato unicamente da una cattiva gestione dell'emergenza e dalla frammentazione del sistema energetico italiano dovuto alla privatizzazione selvaggia, si è assistito ad un coro di voci (compresa quella del Presidente della Repubblica) che senza alcuna nozione tecnico-scientifica e senza alcuna cognizione di causa hanno indicato la necessità della costruzione di nuove centrali e del ritorno al nucleare.

L'Italia di centrali ne ha abbastanza, ne ha anche troppe. Se avviene un black-out notturno è perché, essendo molte centrali ormai private e quindi in gestione a chi deve far profitto monetario, per diminuire i costi si preferisce tenerle spente di notte e si preferisce acquistare dall'estero la poca quantità di energia che serve.

In definitiva, le cose da fare nel settore energetico sarebbero altre: un ammodernamento della rete elettrica nazionale, che ha il record in Europa sia delle perdite sia degli allacciamenti abusivi, una riorganizzazione del coordinamento tra tutti i gestori dell'Energia, dalle centrali alla distribuzione.

La rete elettrica di una nazione fa parte della geografia stessa della nazione, è intessuta sul territorio, fa parte del territorio e senza di essa si ferma la nazione intera. Per questo motivo, una rete elettrica non andrebbe mai privatizzata. Cosa succederà quando sarà di proprietà privata anche il traliccio in campagna ed il cavo aereo? Non ci sarà centrale nucleare che tenga quando il proprietario privato vorrà tagliare i costi ed aumentare i profitti.

E quando quel proprietario privato, magari estero, interessato solo alla salita del proprio titolo su una borsa valori situata dall’altra parte del globo, sarà in possesso di un reattore nucleare situato sul territorio italiano? Ci saranno tutte le garanzie e gli obblighi affinché quel reattore possa essere ispezionato, per quanto riguarda la sicurezza, da parte dello Stato? E lo Stato da dove prenderà personale qualificato per tali controlli? E se saranno privatizzati anche questi controlli? Siamo sicuri di volerci fidare?

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