Assange, le “non garanzie” USA

di Michele Paris

Nelle scorse settimane si erano intensificate le voci di una possibile risoluzione del caso di Julian Assange, con il presidente americano Biden che aveva anche ammesso di valutare la richiesta del governo australiano di lasciare cadere definitivamente le accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Per il momento, il governo di Washington sembra essere però deciso a continuare la battaglia per...
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Israele e l’equazione iraniana

di Michele Paris

L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove. La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle...
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di Michele Paris

Pressato da livelli di gradimento ai minimi storici e da una frustrazione ampiamente diffusa tra la maggior parte degli americani che ancora non vedono alcun frutto della presunta ripresa economica in corso, Barack Obama ha messo in atto questa settimana l’ennesimo patetico tentativo di presentarsi come il difensore delle classi disagiate degli Stati Uniti. In un discorso pubblico tenuto presso l’istituto di ricerca filo-democratico Center for American Progress, il presidente ha infatti denunciato le vergognose disparità sociali e di reddito che caratterizzano il paese, promettendo di battersi nei prossimi anni per una più equa distribuzione delle ricchezze. Ciò che l’inquilino della Casa Bianca ha però mancato nuovamente di spiegare sono state le pesantissime responsabilità della sua amministrazione nell’avere creato la situazione che egli stesso ha voluto condannare.

Ad ascoltare Obama nel suo discorso di mercoledì, molti americani avrebbero potuto pensare che il presidente non abbia avuto alcun ruolo in questi cinque anni nel processo di trasferimento di ricchezza dai ceti più poveri al vertice della piramide sociale.

Come se fosse uno spettatore incolpevole, Obama ha così descritto con toni molto duri il divario tra ricchi e poveri negli Stati Uniti, definendolo, assieme ad una mobilità sociale in netto declino, come la principale minaccia al “sogno americano”. Del tutto esatti sono stati poi i dati proposti alla platea, come ad esempio quelli che descrivono una società nella quale il 10 per cento della popolazione detiene la metà della ricchezza prodotta nel paese, oppure che l’1 per cento possiede beni 288 volte superiori a quelli di una famiglia media americana.

Ai numeri proposti dal presidente democratico se ne potrebbero aggiungere molti altri per mettere in evidenza i risultati delle politiche di classe messe in atto questi anni. Ad esempio, come ha affermato a Bloomberg News un economista dell’Università di Berkeley, nel 2012 il 10 per cento degli americani più ricchi si è aggiudicato una parte dei redditi complessivi mai così grande dal 1917.

Oppure, i profitti delle corporations, che rappresentano oggi una parte dell’economia dalle dimensioni senza precedenti dal 1947, mentre le entrate dei lavoratori, in proporzione al PIL degli Stati Uniti, sono al minimo dal 1952.

Le parole di Obama hanno prevedibilmente raccolto il consenso di media e commentatori “liberal”, i quali lo hanno elogiato quasi senza riserve per avere pronunciato uno dei discorsi migliori della sua presidenza in materia di economia e per avere allo stesso tempo affrontato in maniera diretta la piaga dell’ineguaglianza negli Stati Uniti.

Le denunce e le promesse del presidente, tuttavia, non possono nascondere il fatto che egli stesso fin dall’insediamento alla Casa Bianca nel 2009 ha favorito questo processo di polarizzazione sociale, tanto che in questi ultimi anni l’1 per cento degli americani più ricchi ha messo le mani addirittura sul 95 per cento dell’aumento complessivo di reddito fatto registrare negli Stati Uniti.

Allo stesso modo, l’amministrazione Obama ha presieduto ad una contrazione media dei redditi degli americani superiore al 4 per cento in cinque anni, proprio mentre l’èlite economica d’oltreoceano, come ha ricordato mercoledì lo stesso presidente, raddoppiava la propria quota di ricchezza in relazione a quella totale prodotta dal paese.

Queste dinamiche, come appare evidente, non sono il risultato di forze anonime ma di politiche messe in atto deliberatamente da una classe dirigente al completo servizio dell’aristocrazia economica e finanziaria. Se ciò non è responsabilità esclusiva dell’amministrazione Obama, dal momento che politiche economiche regressive vengono implementate da decenni, la tendenza verso l’allargamento del divario sociale e di reddito è stata senza dubbio aggravata in maniera drammatica dalle iniziative dell’attuale presidente democratico in seguito all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

A contribuire alla creazione di un panorama caratterizzato da disuguaglianze sempre più marcate, come delineato da Obama, sono ad esempio misure a beneficio esclusivo dell’industria finanziaria come i pacchetti di “salvataggio” pari a centinaia di miliardi di dollari approvati sul finire dell’era Bush jr. e ampliati nei mesi successivi.  O, ancor più, la politica espansiva della Federal Reserve che continua a mantiene i tassi di interesse in prossimità dello zero e a immette sui mercati qualcosa come 85 miliardi di dollari ogni mese, alimentando la speculazione finanziaria e facendo schizzare verso l’alto gli indici di borsa.

Parallelamente, i profitti delle grandi aziende - come quelle automobilistiche, oggetto di una “ristrutturazione” gestita dal governo federale nel 2009 - sono stati favoriti dall’impoverimento di massa dei lavoratori attraverso licenziamenti e riduzione di stipendi, pensioni e benefit sanitari.

La stessa “riforma” del sistema sanitario, inoltre, al contrario della retorica ufficiale, serve e servirà in larghissima misura a ridurre i costi assicurativi per il settore pubblico e quello privato, facendo aumentare le contribuzioni a cui decine di milioni di americani dovranno provvedere di tasca propria per mantenere una qualche copertura.

L’amministrazione Obama è stata protagonista anche della liquidazione di un numero record di posti di lavoro tra i dipendenti pubblici in questi anni - oltre 600 mila - così come ha assistito spesso senza muovere un dito alla distruzione di programmi pubblici destinati alle classi più deboli e, come sta accadendo in questi mesi, alla soppressione dei fondi destinati ai buoni alimentari e ai sussidi straordinari di disoccupazione.

Solo di un paio di giorni fa è infine la notizia dell’approvazione da parte di un giudice fallimentare del procedimento di bancarotta della città di Detroit, presentato dalle autorità cittadine con il pieno appoggio dell’amministrazione Obama e che comporterà, tra l’altro, un taglio delle pensioni degli ex dipendenti pubblici e il conseguente ulteriore peggioramento delle loro condizioni di vita.

Anche tra coloro che hanno risposto positivamente al discorso di Obama, in ogni caso, in molti hanno sottolineato l’assenza di proposte concrete e praticabili quanto meno per limitare il dilagare delle disparità economiche negli USA.

Una delle poche misure indicate dal presidente consiste nell’aumento del salario minimo federale, oggi fissato alla cifra infima di 7,25 dollari l’ora. Dopo avere sostenuto la necessità di salire a 9 dollari l’ora, Obama ha recentemente appoggiato un disegno di legge proposto dal senatore Tom Harkin e dal deputato George Miller, entrambi democratici, che fisserebbe la paga minima oraria a 10,10 dollari l’ora.

Oltre alle difficoltà nel mandare in porto una simile iniziativa al Congresso, appare quanto meno ridicolo pensare che essa possa in qualche modo correggere il trend in corso. Infatti, uno stipendio minimo appena al di sopra dei dieci dollari l’ora sarebbe comunque, in termini reali, più basso di quanto risultava essere quarant’anni fa, senza riuscire nemmeno a far superare la già irrisoria soglia di povertà fissata dal governo federale per un nucleo familiare composto da tre persone.

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