Gaza, terremoto nei campus

di Mario Lombardo

Le proteste degli studenti americani contro il genocidio palestinese a Gaza si stanno rapidamente diffondendo in molti campus universitari del paese nonostante le minacce dei politici e la repressione delle forze di polizia. Alla Columbia University di New York è in atto in particolare un’occupazione pacifica di alcuni spazi all’esterno dell’ateneo e nella giornata di lunedì i...
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Euskadi, un pareggio vittorioso

di Massimo Angelilli

Domenica 21 aprile, nel Paese Basco, circa un milione e ottocentomila persone erano chiamate alle urne per rinnovare il Parlamento. All’appello ha risposto il 62,5%, suddiviso tra le tre province di Bizcaya, Guipúzcoa e Álava. Una percentuale alta, se paragonata con l’ultimo appuntamento elettorale, quello del 2020 drammaticamente contrassegnato dalla pandemia. Molto più bassa invece, rispetto all’auge dell’80% raggiunto nel 1980, anno delle prime consultazioni dopo la transizione democratica. Nel sistema spagnolo, le elezioni regionali rappresentano un test estremamente significativo, al di là della influenza che potrebbero avere nella politica nazionale. È questa una lettura “classica” che, più o meno, si applica in...
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di Fabrizio Casari

Il dato emerso dalle urne è che nonostante una partecipazione superiore alle attese, il PD ha subito una severa sconfitta, certificazione di un indubbio ridimensionamento politico. A Roma è passato dal 26% del 2013 al 17 di oggi. A Torino ha perso 32.000 voti, a Bologna ne ha persi 60.000 e a Napoli 27.000. Salerno, Rimini e Cagliari sono i soli tre comuni dove il centrosinistra ha vinto al primo turno, ma nel caso di Cagliari va specificato che Zedda è espressione di ciò che resta di SEL ed è stato eletto da una lista arcobaleno, con la sinistra unita e senza verdiniani di contorno. Il risultato del Movimento 5 Stelle e la crisi del berlusconismo sono invece le due buone notizie di questa tornata.

Renzi sostiene che il voto era amministrativo e che non riguardava il suo governo, ma mente sapendo di mentire. L’elezione di 1342 sindaci è politica “senza se e senza ma”, perché nonostante l’abbondanza di maquillage rappresentato dalle Liste Civiche, sono i partiti che candidano consiglieri e sindaci e i leader o capetti dei partiti s’impegnano pancia a terra per i rispettivi candidati. Inoltre, sono 13 milioni gli elettori coinvolti, più del 30% del totale degli elettori italiani. Alla scienza statistica basta meno per determinare in maniera pressocché scientifica trand e proiezioni a dimensione generale e alla politica serve ancora meno per indicare aspettative e ripercussioni di un voto così ampio.

Hai voglia a dire che sono espressione di consultazioni locali: le scelte dei candidati - da Sala alla Valente, a Giachetti - hanno indicato con nettezza un percorso di conflitto politico con la sinistra. Renzi si smarca perché è abituato ad appropriarsi della scena mediatica in presenza di successi e a defilarsi in caso di sconfitte. Le vittorie sono sue anche quando non gli appartengono affatto (vedi le europee) ma le sconfitte sono degli altri (anche quando i candidati e gli alleati sono scelti da lui). E l’annuncio di un commissario a Napoli fa ridere: chi ha scelto la Valente? E non è poi solo questione di linea politica, c’è anche il livello della leadership che conta per perdere. Quando un personaggio di terza fila come Guerini imputa a Marino invece che a Mafia Capitale la sconfitta di Roma, si capisce qual è lo spessore politico del giglio magico.

Il PD è ridotto ai minimi termini: è ormai solo un comitato elettorale e una struttura di propaganda al servizio della cerchia renziana. Renzi lo ha distrutto, mangiandone il cuore, consegnandone l’anima al centro e riducendone la politica delle alleanze agli affari con Verdini. Il quale, come Alfano, raccoglie percentuali da prefisso telefonico ovunque e riesce persino, dove sale sul palco del candidato del PD, a non farlo arrivare nemmeno al ballottaggio. Logico peraltro, visto che il PD avrebbe ancora, almeno per il 50%, un elettorato di sinistra che su questo terreno vorrebbe essere rappresentato. Quando avverte che il voto serve a ricostruire la DC del terzo millennio, avvolta in grembiulini e cappucci, semplicemente vota altrove.

Il risultato di ieri è, politicamente, un vero e proprio stop definitivo alla strategia renziana, che prevedeva lo svuotamento di Forza Italia e del ventre molle di nostalgie democristiane da un lato e, dall’altro, l’indebolimento progressivo del Movimento 5 Stelle che avrebbe subito il protagonismo finto-nuovista del Presidente del Consiglio. Entrambi gli scenari sono stati smentiti dagli elettori.

Il primo perché il crollo di Forza Italia, lungi dal travasare consensi moderati verso il nuovo PD a caratura democristiana, ha piuttosto indirizzato i suoi elettori verso la destra più radicale. Il secondo perché il Movimento 5 Stelle ha dimostrato una tenuta superiore alle aspettative e, benché abbia candidato figure minori delle sue fila (diversamente dal PD e da Fratelli d’Italia), ha ottenuto consensi crescenti fino ad arrivare ad essere il primo partito a Roma e Torino, solo per fare un esempio, ovvero dove il PD crolla. E crolla perché emerge un travaso di voti proprio dal PD verso il M5S.

La scommessa renziana, di costruire un partito che rappresenti l’establishment, che offra la mediazione tra interessi diversi, governi l’alleanza tra finanza cattolica e finanza laica, garantisca con il suo peso lo spazio lasciato vuoto dalla crisi di riassetto del capitalismo italiano e possa rappresentare il Paese nelle istituzioni politiche europee, è davvero eccessivamente ambiziosa prima che sbagliata. E comunque non può certo realizzarsi per il tramite di un partito diretto da una pattuglia di parvenu esperti solo in arroganza.

Nel frattempo, la mappa del voto racconta di come il PD vince nei quartieri dei centri storici e dei quartieri ricchi, perdendo invece nelle periferie. Non è questa la sede per analizzare a fondo quella che appare come una vera mutazione antropologica, ma certo che la corrispondenza tra questo dato e la linea politica del partito, schiacciata sull’establishment e indifferente ai temi sociali, ha la sua risposta nelle urne. Quando di fronte alla crisi sociale che proletarizza i ceti medi e affossa quelli popolari, il PD esalta Marchionne e dichiara guerra ai sindacati, come dovrebbero votare i lavoratori?.

Il PD si trova all’angolo, guidato da un leader ormai definitivamente entrato nel cono d’ombra. Se disponesse di respiro ideale e programmatico avrebbe già offerto le dimissioni della segreteria (dove Guerini e Serracchiani hanno brillato per l’appoggio convinto agli sconfitti) e la celebrazione di un congresso straordinario. Una convocazione anticipata del congresso sarebbe un segnale di comprensione della realtà.

Ma difficilmente avverrà, dato che, inevitabilmente, rappresenterebbe l’ammissione dei renziani di un caduta inaspettata. Evidenzierebbe, inoltre, la verità plastica di un personaggio che divide, che ha già stancato gli italiani dopo solo due anni di arroganza e si tratterebbe di un colpo durissimo all’ego di Renzi, dunque non avverrà. E del resto intendiamoci: anche avvenisse, vedrebbe una riconferma dell’attuale gruppo dirigente al timone del partito; vuoi per le truppe di fedelissimi, vuoi per l’inconsistenza dei Bersani, Cuperlo e Speranza, lo spazio di manovra dei dissidenti è talmente ridotto che rende impossibile prefigurare un ribaltone interno o anche solo un cambio di linea.

Ora, congresso o no, la sinistra PD ha ancora una ultima possibilità di presentarsi come un’area effettivamente in buona fede, ancorché in difficoltà. La sinistra oggi, piegata e sconcertata, quando non sceglie la via dell’astensione si esprime attraverso il voto radicale, sia esso nelle liste alla sinistra del PD, sia nel Movimento 5 Stelle. Non riconoscerlo sarebbe un grave errore di lettura del contesto e del proprio patrimonio elettorale. Rimanere nel PD pur sapendo che non vi sono tracce di una cultura di sinistra o anche solo ulivista, riaffermando un senso di fedeltà alla “ditta” e chiedendo al massimo maggiore educazione al capo, è solo orpello, elemento decorativo politicamente inutile; è un ghirigoro dell’animo, non una proposta politica.

Adesso si apre uno scenario nuovo. In politica la sfida è sempre quella che deve arrivare e, anche se lo negano, il passaggio delle Amministrative ha un rilievo sia per il risultato in sé che per il referendum che verrà. Su queso Renzi ha deciso di giocare il suo ruolo politico e ciò, di per sé, rappresenta per lui già un fattore di rischio alto, dal momento che proprio la speranza di disarcionarlo contribuirà ad ingrossare le fila del NO.

Si tratta dunque di mobilitarsi per scongiurare la controriforma d’ispirazione massonica insita nelle riforme istituzionali per le quali si voterà in autunno. Impedire la riduzione di una repubblica parlamentare a sistema autoritario è battaglia decisiva sia sul piano politico che su quello culturale ed assume un valore assoluto anche sul piano simbolico. E l’indebolimento ulteriore di Renzi e della sua strategia neoautoritaria passa anche da una ulteriore sconfitta nei ballottaggi per le comunali perché il risultato definitivo delle amministrative inciderà anche su quello referendario perché quei ballottaggi influiranno sul clima politico intorno al PD.

Bisognerà tener conto di tutto ciò quando si voterà per i sindaci delle città. Anche coloro che oggi sostengono Renzi non è detto rimarranno al loro posto. L’Italia è il Paese per eccellenza dove la corsa è a salire sul carro dei vincitori e a scendere da quello degli sconfitti. Bisognerà votare considerando tutti i riflessi che ogni singolo voto avrà sulla tenuta del governo e comportarsi di conseguenza, anche a costo di votare turandosi il naso. Meglio avere il naso chiuso per un minuto che le bocche cucite e le mani legate per i prossimi venti anni.


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