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di Fabrizio Casari

Le lacrime, certo. Legittime, sacrosante. La commozione di un intero Paese che sa riconoscere il dolore e cerca di sopravvivervi è degna del massimo rispetto e considerazione. Poi però, passato il cordoglio, le domande, i dubbi e le osservazioni non possono restare nascoste dietro le lacrime. Diversamente si lascerebbero le responsabilità al fato o alla natura, che amica forse non è ma nemmeno le speculazioni lo sono.

Perché quando gli edifici pubblici, che andrebbero edificati con le norme antisismiche previste, vengono giù come in un orrendo videogame, è chiaro che la natura ci mette del suo ma la parte decisiva è la modalità con la quale si è costruito.

L’Italia è un paese ad alto rischio sismico. Per la placca tettonica africana ed euroasiatica che spingono da due punti diversi, per la conformazione stessa del suo assetto orografico e idrogeologico. Eppure non vi sono procedure di allarme sismico, di evacuazione e raccolta come in ogni paese a rischio sismico del mondo. Basta viaggiare per scoprire che ovunque vi sono, tranne che da noi. Dalle sirene per gli allarmi ai piani di evacuazione, all’illustrazione delle procedure da osservare, ogni città a rischio sismico prova a difendersi ed organizza simulazioni di sisma per evidenziare il grado di assimilazione da parte dei cittadini delle procedure da svolgere in caso di terremoto o altro.

Da noi no. Ad eccezione di alcune situazioni, non vi sono esercitazioni per la difesa civile; soprattutto nelle grandi città non c’è nemmeno idea di cosa sia una difesa civile e quanto riesca ad attutire nelle calamità. Tutto, nelle emergenze, è lasciato all’attività dei membri della Protezione civile e ai volontari, con i primi dotati di risorse insufficienti e i secondi che, pur straordinariamente generosi, non possono raggiungere i livelli di efficienza di una struttura preparata specificamente ad affrontare ogni tipo di calamità.

Già l’inesistenza di procedure e piani d’emergenza adeguati al rischio per la popolazione rende ingovernabile ciò che invece (le calamità) potrebbe essere in qualche modo controllato, comunque contenuto nei loro effetti, pare incredibile. Addirittura criminale risulta la riduzione del budget e del personale per i Vigili del Fuoco: che sono abili, competenti, autentico elemento imprescindibile della struttura di soccorso.

Nessun governo ha mai ritenuto di dover fare della prevenzione e dell’addestramento un punto importante del suo programma: certo, comporta spese ma, soprattutto,  ricostruire è molto più profittevole che mantenere. La ricostruzione porta con sé affari fenomenali e circolazione orizzontale e verticale del denaro, con la possibilità di farne passare percentuali a soggetti diversi; dalla politica all’amministrazione, dalle imprese che a loro volta subappaltano  all’indotto.

Le inaugurazioni e i tagli di nastri offrono poi il valore aggiunto del l’esibizione pubblica dei politicanti d’ogni colore (ammesso che vi sia ancora una percettibile differenza cromatica nel quadro politico). Ricostruire è quindi la parola d’ordine: significa gare, appalti, licenze, assegnazioni, denaro che circola e appetiti che si soddisfano, nell’attesa del suo ritorno sotto forma di voti.

La manutenzione, invece, non produce esibizioni di propaganda, non costruisce consenso emotivo. Quando viene fatta, vedi il caso di Norcia, salva interi paesi e migliaia di persone. Agisce in condizioni di normalità e prevede un piano strutturato d’interventi, cosa quanto mai latitante nel Paese. Ma la manutenzione rappresenta un’eccezione, non la norma. Anche per una idea sciagurata della salvaguardia dei suoli, c’è la riduzione al lumicino dei flussi di spesa destinati alla prevenzione, che sono insufficienti in generale, persino per pagare correttamente le imprese alle quali vengono appaltati i lavori, se queste sono serie.

Vige invece la logica del massimo ribasso, contorta e fintamente rigorosa, che in molti casi ha prodotto il proliferare di piccole-medie imprese a scarso valore tecnico ed alta scaltrezza, che in considerazione dei costi previsti sono però le uniche a poter accedere ai bandi.

E qui c’è un altro aspetto non secondario: il procuratore della Repubblica ha detto che benché fossero stati costruiti con criteri antisismici, per come gli edifici pubblici sono franati l’impressione è che fossero stati costruiti con molta sabbia e ben poco cemento armato. Ovviamente utilizzare sabbia e non cemento produce una riduzione enorme dei costi a fronte di identica fattura per chi commissiona. In questo modo il costruttore realizza un surplus importante di profitto

Poi l’assenza di monitoraggio dei lavori, di controlli, di verifiche e collaudi, favorisce le condotte criminogene di personaggi che si definiscono imprenditori ma sono cialtroni la cui unica attività è l’accumulo illegittimo di denaro a spese di tutti. A definitiva conferma dell’inefficacia del codice degli appalti, basta vedere a chi questi sono andati, al giro corruttivo che hanno innescato ed ai risultati ottenuti.

E se questi sono elementi propri della deformazione del sistema, ci sono poi deformazioni strutturali della nostra mentalità che aggiungono problemi a problemi. Il nostro è un paese che è cresciuto con il mito della casa di proprietà. Se poi sono più di una, meglio ancora. Identificate come certezza per il futuro, segno di ricchezza, garanzia di ereditarietà, il mattone è stato, almeno fino alla crisi del 2008, considerato il bene-rifugio per eccellenza, divenendo il catalizzatore principale del risparmio privato. Nessun altro paese europeo ha la percentuale di proprietari di case come da noi (circa il 92 per cento delle persone abitano nella casa di proprietà).

Sarebbe lungo - e non è questa la sede - analizzare le ragioni ed il significato di questa che a molti appare come una idiosincrasia, ma tant’è. Il problema, però, è che il desiderio di possedere una casa e l’assenza di piani abitativi e degli investimenti per la politica residenziale pubblica, ha spinto milioni di persone in cerca di un tetto al “fai da te”; abusivo e senza logica, pericoloso per chi vi abita e per le zone circostanti.

Basta ricordare ciò che avvenne a Sarno o tenere a mente la situazione del Vesuvio, alle cui pendici abitano un milione di persone che potrebbero diventare vittime di una eruzione particolarmente violenta. Senza nessun piano regolatore, senza controlli e senza piani territoriali, sono nati e cresciuti decine di Comuni che non dovevano e non potevano nascere in una zona ad altissimo rischio.

L’Italia, oltre a 7500 km di coste in molti casi friabili, sopporta catene montuose, vulcani e fiumi insultati da decine di migliaia di abitazioni costruite fuori da ogni logica e capaci di determinare ulteriori e gravi problemi anche ai nostri flussi d’acqua. Che nessun governo ritenga di dover investire per il riassetto idrogeologico e per la costituzione di una unità speciale di sorveglianza tecnica diretta dalle Procure che vigili contro ogni abusivismo è grave.

Che fare per invertire la tendenza? Servirebbe concepire la nascita di un grande polo pubblico dell’edilizia destinato alla messa in sicurezza dell’Italia. Una sorta di nuova IRI, destinataria di ogni assegnazione di lavori per opere di pubblica utilità, a cominciare dal riassetto idrogeologico e dal consolidamento antisismico degli edifici nelle zone a più alto rischio ed alla manutenzione ordinaria e straordinaria.

Comporterebbe un piano nazionale di manutenzione del territorio, cui dovrebbe accompagnarsi un progetto di finanziamento straordinario per decine di migliaia di assunzioni di ogni figura professionale necessaria, dagli operai edili ai trasportatori, ai geologi, ai eometri e agli ingegneri civili. Sarebbe possibile tenere al di fuori del patto di stabilità l’investimento necessario e lascerebbe muti i criminali che si fregano le mani ad ogni tragedia pensando al business della ricostruzione.

Con le opere a carico dell'impresa pubblica finirebbero i finanziamenti a pioggia per le imprese degli “amici” e, con ciò, verrebbe dato un colpo mortale alla corruzione che alimenta il sistema degli appalti. Anche solo con questa consistente quota di risparmio di quei 60.000 miliardi di euro annui (che sono il costo della corruzione) si potrebbero trovare parte dei fondi necessari. E ciò potrebbe essere realizzato anche ignorando eventuali veti della UE, così come altri paesi hanno fatto. Avremmo più occupazione, più sicurezza e meno corruzione.

Vedremo se questa Paese che partorisce affaristi con il pelo sullo stomaco come gli Anemone, gaffeur come Vespa e Del Rio e idioti come quelli che propongono di scambiare italiani con stranieri nei centri di alloggio, sarà capace di battere i pugni sul tavolo, almeno una volta. Vedremo se arriverà il giorno che potremo gettare al vento il dogma delle privatizzazioni che tanti danni ha prodotto.

Perché più che a vivere con il terremoto, il movimento sussultorio e oscillatorio cui ci siamo abituati e quello della corruzione, che nel nostro Paese è passato dall’essere elemento di contorno a perno centrale delle politiche socioeconomiche. Per alimentarla si delineano molti più interventi che per eliminarla. La corruzione, insomma, non è più la conseguenza di un sistema, è ormai essa stessa sistema. E sotto le macerie restano i corpi e anche l’anima di un Paese che ha perso se stesso insieme ai suoi cari.