L’accordo sulle terre rare tra Stati Uniti e Ucraina è stato firmato, ma chiamarlo accordo è uno strano modo di definire l’esproprio del 50% delle ricchezze nazionali da parte di un paese verso un altro. Non si può negare, infatti, che con l’accordo si sia suggellata un’autentica vergogna per l’Ucraina che cede le sue scarse ricchezze residue in cambio del protettorato statunitense. La firma del suo presidente (abusivo) consente lo spoglio di una delle due fonti di ricchezza del suo Paese, con la prima (quella agricola) già ceduta alle multinazionali statunitensi. Quindi la famosa indipendenza di Kiev dalla Russia è in realtà una dipendenza totale dagli Stati Uniti.
L’accordo era già previsto dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca e, secondo il timing del tycoon, si sarebbe dovuto firmare in occasione della visita di Zelensky a Washington. Non fu possibile, perché l’incontro si concluse di fronte ai media con un violento rimprovero del Presidente USA all’esponente ucraino che aveva azzardato un tentativo di dissenso, perfettamente conscio di come il testo alla firma fosse umiliante per l’Ucraina e preoccupato della figuraccia internazionale che lo dipingeva come il vassallo in ginocchio di fronte al feudatario.
Nel merito l’accordo non specifica le regioni nelle quali le estrazioni dovrebbero aver luogo. Quel che è certo è che la maggioranza delle ricchezze minerarie ucraine si trova in Donbass ed è sotto occupazione russa. Già in un report del 2022 la società di consulenza canadese SecDev rilevava come il 63% delle miniere di carbone ucraino e circa la metà di quelle di manganese, cesio, tantalio e terre rare si trovano in territori occupati dalla Russia, che a più riprese ha ricordato come non considera la sua presenza oggetto di negoziato nelle zone di Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhya.
Il Cremlino esige la definizione di una architettura di sicurezza per tutti e se l’avvio dell’Operazione Militare Speciale si è data proprio per evitare l’accerchiamento della NATO, di avere armamenti tattici e strategici e laboratori per la guerra batteriologica statunitensi ai confini russi, non si capisce cosa mai dovrebbe essere cambiato per Mosca dopo tre anni e mezzo di guerra ed una vittoria sul campo. La sicurezza della Russia resta al primo posto e dovranno essere fornite numerose e verificabili garanzie circa la limitazione del personale e materiale USA sul territorio ucraino se si vuole che Mosca consenta le attività oggetto dell’accordo.
Insomma se a Kiev c’è l’idea di consegnare agli USA le regioni minerarie, così da ottenere protezione dai russi, e di avere un ombrello sotto il quale ricominciare a riarmarsi, ci si trova in presenza di un calcolo errato. Mosca, pur prendendo atto dell’accordo e disponibile a valutarlo nel contesto della pace futura, ad oggi non ha nessuna intenzione di fermare le operazioni militari solo perché una parte dell’Ucraina è divenuta de facto territorio USA.
Anche sul piano realizzativo l’accordo sembra essere un una chimera. Gli esperti minerari stimano che una produzione di rilievo avrà bisogno di un tempo vicino ai venti anni. Un'eternità in un mondo dove ogni cinque anni c’è una forte innovazione tecnologica.
Questi progetti possono diventare una voragine che inghiotte miliardi e il non poter investire da parte ucraina, renderà fatalmente tutto preda degli USA. Loro, e non l’Ucraina, dovranno infatti mettere il denaro necessario per l’intero progetto e si può esser certi che troveranno il modo di farsi rimborsare gli investimenti come hanno appena dimostrato trasformando le donazioni in prestiti esigibili. Come d’abitudine, prima gli fanno fare una guerra per i loro interessi e poi chiedono agli alleati di pagargliela e al paese vittima di consegnare inoltre il costo della ricostruzione. Lo stesso avvenne con il Kuwait.
Aldilà della sua fattibilità, l’accordo (se così lo si può chiamare) è comunque un esempio di relazione bilaterale di tipo asimmetrico, illuminante del modello di relazioni internazionale che gli USA concepiscono con nemici e alleati. Nei confronti dell’Ucraina non è il primo, certo: nelle diverse articolazioni della soffocante relazione tra Kiev e Washington, quella sulle terre rare è solo la più recente tra le operazioni di saccheggio statunitense. Preceduta sin dal 2014 dalla vendita a prezzi irrisori di circa il 40% dei suoi territori agricoli a Monsanto, Cargill e Du Pont e dalla cessione della sovranità sul comando politico e militare sulle sue istituzioni, certifica una annessione di fatto agli Stati Uniti, che dopo aver spinto l’Ucraina verso la sua autodistruzione utilizzandola come ariete verso la Russia, ne espropriano ora il 50% delle sue ricchezze minerarie.
Tutto ciò ipoteca ogni possibile futuro: l’esposizione debitoria internazionale e la necessità di procedere alla sua ricostruzione, una volta finita la guerra con la sua resa, apparivano già due scogli insuperabili pur mantenendo (per ora) una sufficiente sovranità territoriale ed un possibile utilizzo delle sue risorse strategiche (minerali ed alimenti). Inoltre, l’intenzione politica di aderire all’Unione Europea la obbliga ad un esborso di 50 miliardi di Euro per l’accesso all’istituzione comunitaria (che non può per statuto abbonato a nessuno) e che la espone a politiche draconiane di controllo finanziario attraverso l’adesione al Patto di Stabilità che divengono una ulteriore cessione di sovranità per tutti i suoi membri a vantaggio delle élites finanziarie europee e USA.
La Russia guarda a questo accordo sapendo che non servirà all’Ucraina per la sua ripresa economica, ma tiene da conto le implicazioni politiche che esso contiene, una delle quali ha già avuto luogo con lo sblocco degli aiuti statunitensi a Kiev di 75 milioni di Dollari che Trump aveva sospeso come risposta alla mancata firma dell’accorso a Washington.
E’ ancora da stabilire se si tratta dell’ultima tranche già approvata o della prima di altre. Nel primo caso comunque non sposterà di un metro la situazione sul terreno e non inficerà il dialogo appena cominciato. Nel secondo caso rischierebbe invece seriamente d’interrompere ogni trattativa, dal momento che Mosca non accetterebbe che gli USA svolgessero il doppio ruolo di mediatori e parte in causa nel conflitto. O si forniscono assicurazioni o si forniscono armi: tertium non datur.
Il Cremlino non nutre nessuna fiducia nell’Occidente e, pur avendo un dialogo aperto con Trump, non ne sottovaluta l’estrema volubilità e l’ancor maggiore inaffidabilità. Dunque adotta il vecchio sistema del verificare per credere.
L’Europa non plaude all’accordo, sebbene non lo osteggi pubblicamente, preferendolo commentare in chiave positiva in quanto proporrebbe, a detta di Bruxelles, un parziale cambio di rotta da parte di Trump che avrebbe cominciato a ridurre la sua ostilità verso Zelensky. Ma la verità è che la UE non è affatto contenta, dato che le risorse minerarie ucraine erano uno delle garanzie che Zelensky aveva dato in cambio del visto per l’entrata nella UE, che Kiev non potrebbe sostenere economicamente in nessuno dei suoi aspetti. Anche la produzione di ferro e altri metalli, che potrebbe essere destinata al bottino europeo, appare compromessa dall’interesse strategico che hanno gli USA dopo le sanzioni al loro maggior fornitore (il Canada).
Tutto da vedere, quindi, se la UE riuscirà a metterci le mani: Washington potrebbe rivendicarli a sé come rimborso del mancato contributo finanziario ucraino alla costruzione delle infrastrutture ed alla logistica necessaria per le estrazioni minerarie.
Con questo accordo, l’Europa, una volta di più, è tagliata fuori. Le fabbriche tedesche che dipendono dal litio per i veicoli elettrici tagliano posti di lavoro: la Volkswagen ha licenziato 15.000 lavoratori nel 2024 ed ogni comparto produttivo del Vecchio Continente è in sofferenza, stroncato da un costo dell’energia quadruplicato per effetto del rifiuto al gas e petrolio russi e definitivamente affondato dai dazi statunitensi.
Nel frattempo, nonostante la guerra, nel 2024 la Russia ha aumentato del 12% la produzione dei propri minerali strategici, diventando fornitore chiave di litio e nichel per Cina e India. Secondo Rosstat, solo lo scorso anno l'esportazione di terre rare ha fruttato al Paese 8,3 miliardi di dollari. E questi sono fatti, non chimere.