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I faticosi negoziati in corso tra Iran e Stati Uniti continuano a essere una delle priorità della politica estera di Donald Trump, tanto da avere probabilmente influito sul primo licenziamento eccellente nello staff dell’amministrazione repubblicana. I messaggi che arrivano da Washington restano peraltro contraddittori e il rinvio del nuovo round di colloqui, inizialmente previsto per lo scorso fine settimana, assieme alle ennesime sanzioni decise dalla Casa Bianca, sembrano anticipare un possibile e tutt’altro che sorprendente naufragio della diplomazia. Come sempre con Trump, però, è di fatto impossibile decifrare la strategia messa in campo, sempre che una strategia esista realmente, così da rendere precaria ogni speculazione sulla possibile risoluzione o sul precipitare della crisi del nucleare iraniano.

La testa del Consigliere

A prima vista, la rimozione di Mike Waltz dall’incarico di Consigliere per la Sicurezza Nazionale potrebbe sembrare una buona notizia nella prospettiva di un accordo con la Repubblica Islamica. L’ex deputato della Florida è uno dei rappresentanti di più alto livello della fazione interventista (“falchi”) all’interno dell’amministrazione Trump e, infatti, proprio le sue manovre per convincere il presidente ad aumentare l’impegno militare americano in Medio Oriente potrebbero essergli state fatali. O, almeno, questa è la tesi proposta da una “esclusiva” pubblicata domenica dal Washington Post.

Secondo il giornale di Jeff Bezos, la sorte di Waltz era in bilico già dopo le prime settimane successive all’insediamento di Trump, perché da subito orientato verso l’uso della forza per risolvere le questioni più calde sull’agenda estera della nuova amministrazione. Sarebbe stata in particolare il capo di gabinetto del presidente, Susie Wiles, a spingere per l’allontanamento di Waltz, a causa soprattutto del suo atteggiamento relativo all’Iran. Trump e i suoi più stretti collaboratori avevano preso di fatto una decisione contro il Consigliere per la Sicurezza Nazionale dopo la visita a Washington del premier-criminale di guerra israeliano Netanyahu a inizio febbraio, in occasione della quale Waltz avrebbe concordato con quest’ultimo un piano d’azione non ratificato dal presidente.

Le fonti del Post rivelano che Waltz avrebbe discusso “intensamente” con Netanyahu delle “opzioni militari” contro l’Iran, per dare alla politica estera americana una “direzione non gradita a Trump”. In sostanza, Trump non intendeva precipitare una decisione, sollecitata da Tel Aviv, che avrebbe scatenato una guerra rovinosa senza avere prima tentato di intraprendere la strada della diplomazia. Già in bilico, Waltz avrebbe poi esaurito il suo capitale politico con l’esplosione del cosiddetto “Signalgate”, cioè dopo la diffusione della notizia che il Consigliere per la Sicurezza Nazionale aveva aggiunto il contatto di un noto giornalista americano a una chat governativa e teoricamente riservata di Signal, dove si discutevano informazioni ultra-sensibili a proposito di un attacco militare imminente contro il governo yemenita di Ansarallah (“Houthis”).

Alcuni commentatori sostengono dunque che il licenziamento di Waltz allontani una guerra con l’Iran. I motivi della sua rimozione sono però da collegare, oltre che alle ripercussioni pubbliche del “Signalgate”, anche a dinamiche interne ai rapporti tra i vari uffici della Casa Bianca e al risentimento di Trump verso il suo consigliere per avere tramato alle spalle del presidente. L’influenza sionista sull’amministrazione repubblicana resta d’altra parte enorme e, tutt’al più, sarà solo superficialmente scalfita dall’uscita di scena di Mike Waltz, il quale è stato oltretutto dirottato verso l’incarico di ambasciatore USA presso le Nazioni Unite. La carica che è stato costretto a lasciare sarà ricoperta ad interim dal segretario di Stato, Marco Rubio.

Diplomazia e sanzioni

Come già anticipato, la quarta serie di colloqui indiretti tra USA e Iran, con la mediazione dell’Oman, doveva tenersi sabato scorso a Roma, ma è stata cancellata, secondo il ministro degli Esteri di Teheran, Abbas Araghchi, per “ragioni logistiche e tecniche”. Solo due giorni prima della data stabilita per il summit, Trump aveva però minacciato in un post sul suo “social” Truth l’imposizione di sanzioni secondarie contro qualsiasi persona o entità che avesse acquistato petrolio o derivati dalla Repubblica Islamica. L’obiettivo principale, forse più ancora dell’Iran, sembra essere la Cina, primo importatore del greggio di questo paese. Inevitabilmente, il governo iraniano ha però condannato l’annuncio di Trump e ribadito che pressioni e minacce non faciliteranno il raggiungimento di un accordo.

Un altro segnale non esattamente incoraggiante è il messaggio rivolto all’Iran, questa volta su X, dal segretario alla Difesa, Pete Hegseth, il quale, sempre settimana scorsa, intimava con toni mafiosi di interrompere il supporto che la Repubblica Islamica offrirebbe al governo di Ansarallah in Yemen. Estremamente sospetti sono anche gli ultimi episodi di esplosioni e incidenti vari avvenuti in territorio iraniano, primo fra tutti quello del 26 aprile scorso nel porto commerciale di Shahid Rajaee, il più importante del paese, che ha fatto una trentina di vittime e oltre 800 feriti. Altri casi di esplosioni, anche se decisamente meno gravi, avrebbero interessato almeno una centrale elettrica e una base dei Guardiani della Rivoluzione. L’ipotesi del sabotaggio per opera di Israele o Stati Uniti, con l’obiettivo di far saltare i negoziati, non si può escludere a priori.

Vanno inoltre citate in questo quadro anche le dichiarazioni dei membri dell’amministrazione Trump sulle richieste americane in relazione alle trattative in corso. Settimana scorsa, il segretario di Stato Rubio è tornato ad esempio a elencare le condizioni per un accordo e praticamente tutte sono state da tempo rispedite al mittente da parte del governo di Teheran. Questo insieme di segnali rende quindi improbabile che a far saltare i colloqui di sabato scorso siano stati solo fattori “logistici e tecnici”. L’Iran, ad ogni modo, nonostante le critiche al comportamento americano, ha continuato a confermare la propria disponibilità a proseguire i negoziati per arrivare a un’intesa che soddisfi entrambe le parti.

Cosa vuole realmente Trump?

L’elemento centrale resta dunque la posizione degli Stati Uniti. Ed è tutt’altro che certo che la Casa Bianca abbia una strategia coerente nella trattativa con l’Iran. Fermo restando che il problema del nucleare militare iraniano è inesistente, come ha confermato ripetutamente anche l’intelligence USA, al tavolo delle trattative le richieste e le concessioni che Trump sarebbe pronto a fare risultano determinanti. Le già citate recenti dichiarazioni di Rubio, in larga misura confermate da una successiva intervista del presidente alla NBC, non fanno intendere nulla di buono. Il segretario di Stato ha detto infatti che l’Iran deve abbandonare l’arricchimento dell’uranio e lo sviluppo dei missili a lungo raggio, interrompere le relazioni con gli alleati nella regione e consentire ispezioni dei propri siti nucleari e militari a personale americano.

Per Rubio, la Repubblica Islamica potrebbe importare dall’estero l’uranio arricchito alla percentuale necessaria per l’utilizzo a scopi civili, mentre non sarebbe autorizzata ad arricchirlo domesticamente. A suo dire, solo i paesi che già detengono armi nucleari possono intraprendere l’attività dell’arricchimento dell’uranio. Questa tesi non ha alcuna base legale visto che i firmatari del Trattato di Non Proliferazione nucleare (TNP), tra cui c’è l’Iran, hanno facoltà di agire in questo modo, ma la dice lunga sull’approccio americano ai negoziati.

Il governo di Teheran ha già affermato in più circostanze che non intende rinunciare ai propri diritti e che le questioni del proprio programma missilistico e dei rapporti con gli alleati dell’asse della Resistenza non devono entrare nelle discussioni con gli Stati Uniti. Il continuo ripresentarsi di questi argomenti nelle dichiarazioni dei membri dell’amministrazione Trump dimostra ancora una volta che gli obiettivi di Washington non hanno nulla a che vedere con le potenzialità iraniane di costruire armi nucleari, quanto piuttosto con la posizione e le ambizioni regionali della Repubblica Islamica, oggettivamente un ostacolo alla supremazia di USA e Israele in Medio Oriente.

I messaggi contraddittori che arrivano dalla Casa Bianca riflettono in definitiva la spaccatura che attraversa l’amministrazione Trump, con i “falchi” che spingono per sfruttare quella che ritengono un’occasione irripetibile e attaccare militarmente l’Iran in un frangente di debolezza di questo paese e le voci più moderate che consigliano al contrario una de-escalation attraverso un qualche accordo, in modo da evitare una guerra che potrebbe avere effetti disastrosi anche per gli interessi americani e israeliani.