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Un giudice federale americano è dovuto intervenire nuovamente questa settimana per imporre all’amministrazione Trump il rispetto di un ordine che aveva già emesso nel mese di aprile al fine di fermare le deportazioni illegali di immigrati negli Stati Uniti verso paesi autoritari o in stato di guerra. L’ingiunzione è solo l’ultima in ordine di tempo delle numerose arrivate nei giorni scorsi. Svariati tribunali del paese hanno preso di mira quelli che appaiono a tutti gli effetti come rapimenti da parte delle forze di polizia, seguiti dal confinamento in veri e propri lager e dall’espulsione senza il minimo rispetto delle procedure legali e dei diritti costituzionali.

Il giudice distrettuale Brian Murphy del tribunale di Boston ha risposto a un’istanza di urgenza dei legali di immigrati di origine laotiana, filippina e vietnamita, che stavano per essere imbarcati su un volo governativo diretto in Libia. Un altro potenziale paese di destinazione dei migranti da espellere era l’Arabia Saudita. Gli avvocati e le organizzazioni umanitarie che hanno partecipato alla causa ritenevano che il governo del presidente Trump fosse sul punto di trasgredire all’ordine precedente dello stesso Murphy che imponeva, prima di eseguire le deportazioni, una notifica scritta da recapitare ai destinatari del provvedimento e l’opportunità per questi ultimi di ricorrere davanti a un giudice.

I migranti in questione devono inoltre poter chiedere l’applicazione delle protezioni previste dalla Convenzione ONU Contro la Tortura, vista la natura dei regimi dei paesi verso cui avrebbero dovuto essere destinati. Nel ricorso presentato al tribunale di Boston si legge appunto che chiunque venga deportato in Libia rischia seriamente la detenzione, la tortura e, “addirittura, di non essere più ritrovato [dai familiari] o la morte”. Da anni, prosegue il testo dell’istanza, “la Libia è nota per gli abusi diffusi e sistematici degli immigrati… per opera delle forze di sicurezza dello stato, così come di milizie e gruppi armati non governativi”.

I voli delle deportazioni erano insomma già pronti a partire nonostante l’amministrazione Trump fosse vincolata a un ordine restrittivo di un tribunale federale, che vietava provvedimenti di questo genere senza il rispetto delle procedure legali. Dalle notizie circolate sulla stampa nelle ultime settimane è emerso che gli agenti dell’immigrazione (ICE) presso una struttura di detenzione nel Texas meridionale minacciavano regolarmente i migranti di destinarli all’isolamento per costringerli a firmare documenti che avrebbero accelerato la loro deportazione in Libia.

I due governi rivali che controllano rispettivamente la parte occidentale e quella orientale della Libia hanno smentito ufficialmente di avere concordato con la Casa Bianca l’accettazione di migranti espulsi dagli Stati Uniti. Il New York Times ha scritto però mercoledì che Saddam Haftar, figlio del leader di fatto del governo con sede a Bengasi, generale Khalifa Haftar, settimana scorsa si trovava a Washington, dove avrebbe incontrato alcuni esponenti dell’amministrazione Trump. Saddam Haftar, che è anche il vice-comandante delle forze armate in Libia orientale, potrebbe avere sottoscritto un accordo sui migranti in quell’occasione.

Questi ultimi sviluppi dimostrano per l’ennesima volta come il governo del presidente Trump continui ad agire in violazione della legge e della Costituzione per intensificare la lotta all’immigrazione. Questa campagna ultra-repressiva rappresenta un elemento centrale dell’agenda trumpiana, proprio perché viene usata come strumento di mobilitazione della propria base di appoggio negli ambienti più reazionari della popolazione americana, allo scopo di dirottare sulla parte più debole della società tensioni e frustrazioni, mentre vengono attuate politiche economiche classiste e anti-sociali.

È evidente che la Casa Bianca cerchi di forzare la mano e fissare dei precedenti pseudo-legali confidando su giudici compiacenti, inclusi quelli della Corte Suprema, con l’obiettivo successivo di applicare misure detentive e deportazioni anche nei confronti di oppositori politici, al di là del loro status di cittadinanza. Dopo l’ingiunzione del giudice Murphy, il presidente Trump ha affidato a un post sul suo “social” Truth un nuovo attacco contro i magistrati “attivisti” che ostacolano la deportazione di “assassini e altri criminali entrati illegalmente nel nostro paese”.

Nonostante i toni ultra-aggressivi di Trump e dei suoi sostenitori, come accennato all’inizio, le sentenze contro le politiche anti-migratorie della Casa Bianca si stanno moltiplicando. Martedì, ad esempio, un altro giudice distrettuale ha vietato all’amministrazione repubblicana di espellere immigrati venezuelani sulla base del “Alien Enemies Act”, visto che le misure estreme previste da questa legge del 1798 sono applicabili in caso di guerra o invasione degli USA, eventualità chiaramente inesistenti. Lo stesso giudice ha citato anche il trattamento “inumano” e “abusivo” riservato ai migranti già deportati in un super-carcere di El Salvador, grazie a un accordo tra Trump e il presidente del paese centro-americano, Nayib Bukele, senza possibilità di ricorrere per vie legali né di tornare negli Stati Uniti.

Emblematico è il caso non ancora risolto del cittadino venezuelano Kilmar Abrego Garcia, trasferito illegalmente a marzo in El Salvador perché accusato senza prove di essere affiliato a una gang del suo paese di origine. La Corte Suprema qualche settimana fa aveva ordinato all’amministrazione Trump di adoperarsi per riportare in America Abrego, padre di tre figli e residente nello stato del Maryland, ma ad oggi il dipartimento di Giustizia e la Casa Bianca non hanno mosso un dito per adeguarsi alla sentenza. Anzi, nelle ultime udienze in tribunale per aggiornare il giudice del Maryland sul caso Abrego, gli avvocati del governo hanno addirittura invocato il “segreto di stato” per giustificare il rifiuto di fornire qualsiasi informazione sull’immigrato venezuelano.