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Nel secondo giorno della sua trasferta mediorientale, il presidente americano Trump ha incontrato a sorpresa in Arabia Saudita il presidente di fatto della Siria, Ahmad al-Sharaa, dopo che martedì aveva annunciato la sospensione delle pesantissime sanzioni economiche che gravano da anni su Damasco. Il vertice con il leader “riabilitato” della filiale siriana di al-Qaeda (HTS) è stato uno spettacolo degradante ma adeguato agli eventi che stanno infiammando la regione, con gli Stati Uniti totalmente a fianco delle forze terroristiche, a cominciare dallo stato ebraico, per schiantare l’Asse della Resistenza, dalla Palestina all’Iran. La visita di Trump sta confermando d’altra parte le priorità assolute di Washington, vale a dire gli affari e il riassetto degli equilibri strategici in Medio Oriente a proprio favore, lasciando solo poco più di frasi di circostanza per il genocidio in corso a Gaza.

Dietro alle pressioni su Trump per convincerlo a incontrare al-Sharaa ci sono l’erede al trono saudita, Mohammad bin Salman (MBS), presente all’evento di mercoledì, e il presidente turco Erdogan, intervenuto invece telefonicamente. Queste manovre servono a favorire la stabilizzazione della Siria, dando alla sua leadership attuale una parvenza di legittimità nonostante la presa del potere violenta e le continue stragi di cittadini di fede cristiana e alauita.

La Casa Bianca ha diffuso un comunicato in cui si elencano le cinque condizioni che Trump, in cambio della fine delle sanzioni, avrebbe imposto ad al-Sharaa, due delle quali la dicono lunga sulla strategia dietro al reintegro della Siria post-Assad nel consesso delle nazioni gradite a Washington. Una è la normalizzazione dei rapporti con Israele, l’altra è l’espulsione dei “militanti palestinesi” residenti in territorio siriano. Nonostante il regime di Netanyahu occupi una parte consistente della Siria e continui a bombardare indiscriminatamente questo paese, al-Sharaa ha mostrato ampia disponibilità a negoziare un qualche accordo con Tel Aviv. La persecuzione degli esponenti della resistenza palestinese ancora presenti in Siria è invece già in atto da qualche tempo.

Per la Turchia, il ruolo che potrebbe venire riconosciuto a Israele in Siria rappresenta in teoria un motivo di allarme, ma Erdogan punta per il momento agli obiettivi più a portata di mano, come la marginalizzazione della minaccia curda e i vantaggi strategici sulla Repubblica Islamica derivanti dagli eventi di questi mesi in Siria e nel resto del Medio Oriente. In quanto all’Arabia Saudita, il suo ministro degli Esteri, Faisal bin Farhan, si è limitato a chiedere nuovamente un cessate il fuoco a Gaza, così da favorire l’ingresso di aiuti umanitari, tuttora impediti dal blocco totale imposto da Israele, e la liberazione di tutti i prigionieri nelle mani di Hamas.

Salvo sviluppi non previsti, la catastrofe palestinese verrà discussa pubblicamente durante la visita di Trump solo per uso e consumo dell’opinione pubblica araba, mentre i minimi spiragli apparsi in questi giorni, legati alle trattative per la liberazione del soldato israeliano con passaporto americano Edan Alexander, non lasciano intravedere soluzioni efficaci per fermare la violenza sionista. Netanyahu continua infatti ad avvertire che, una volta congedato Trump dal Medio Oriente, partirà il piano finale per la liquidazione della popolazione palestinese dalla striscia.

Molto si sta scrivendo sul divario crescente tra USA e Israele e dell’impazienza di Trump nei confronti di Netanyahu. Differenze tattiche anche importanti sono in effetti emerse, ad esempio sull’Iran e lo Yemen, ma per quanto riguarda Gaza e il genocidio gli sforzi diplomatici americani non sembrano particolarmente incoraggianti. Trump non ha speso molte parole per i palestinesi e nessuna contro Netanyahu nei primi due giorni della sua trasferta in Medio Oriente malgrado le forze sioniste abbiano compiuto in queste ore altre stragi sanguinose. Mercoledì mattina è stato colpito il complesso dell’ospedale indonesiano di Jabalia, con un bilancio di almeno 54 vittime, tra cui 22 bambini e 17 donne. In poche ore, secondo fonti mediche nella striscia, i morti a causa delle bombe israeliane sono stati più di settanta.

Trump ha al contrario messo in guardia l’Iran a cessare le attività volte a generare “caos e terrore” in Medio Oriente, per percorrere la strada della pace. La Repubblica Islamica è stata definita dal presidente americano la “forza più distruttiva” della regione, proprio mentre Israele sta portando a termine uno dei crimini più gravi di questo secolo. La retorica di Trump va comunque filtrata al netto della strategia negoziale, con il quinto round di colloqui sul nucleare iraniano già programmati. Anche la monarchia saudita sembra d’altronde preferire un accordo con Teheran, così da evitare conseguenze rovinose in caso di guerra con gli USA e Israele, ma le trattative si poggiano su basi fragilissime e restano esposte alle manovre destabilizzanti dello stesso Netanyahu e dei “falchi” che affollano anche l’amministrazione Trump.

Il presidente repubblicano è peraltro tornato a invocare gli “Accordo di Abramo” durante la sua permanenza a Riyadh. La normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele resta l’obiettivo numero uno della Casa Bianca, anche se appare poco probabile che i regnanti sauditi decidano di muoversi in questo senso in assenza di una soluzione che riduca almeno l’intensità dell’aggressione israeliana a Gaza.

Per il momento, Washington e Riyadh avanzano spediti nel rafforzamento delle relazioni economiche e militari. Martedì, i due alleati hanno annunciato accordi per forniture militari americane ai sauditi per quasi 142 miliardi di dollari. In una vera e propria orgia del business, la Casa Bianca ha fatto sapere che i sauditi si sarebbero impegnati a investire negli Stati Uniti un totale di addirittura 600 miliardi di dollari, con accordi che spaziano dall’energia all’industria manifatturiera, fino al già citato settore della difesa.

Il consolidamento della partnership saudita-americana dovrebbe rappresentare uno degli elementi di scontro tra Trump e Netanyahu, visto che il primo ha proceduto con la firma dei vari accordi a Riyadh senza includere un’intesa preliminare per la normalizzazione dei rapporti tra l’Arabia Saudita e lo stato ebraico. L’avanzamento delle relazioni in materia di sicurezza e in ambito economico-energetico con il regno wahhabita è comunque un fattore solitamente accettabile per Tel Aviv.

Il vero problema rischia di presentarsi se la Casa Bianca dovesse nel prossimo futuro approvare la vendita all’Arabia di armamenti più avanzati, come gli F-35, o concretizzare la collaborazione per lo sviluppo del nucleare civile. A quel punto, le frizioni con Israele potrebbero arrivare a un punto tale da costringere Trump a fare scelte strategicamente molto delicate e, soprattutto, a impegnarsi in maniera seria sulla crisi palestinese, per ragioni di stabilità interna considerata ancora imprescindibile dalla leadership saudita.