Davanti agli occhi di tutto il mondo e con i propri obiettivi spiegati nel dettaglio e senza possibilità di equivoci, Israele ha iniziato nelle scorse ore quella che si annuncia come la fase finale della soluzione al “problema palestinese”. Lo stesso insignificante allentamento del blocco che da quasi tre mesi affama la popolazione di Gaza è una strategia deliberata e, ancora una volta, dichiarata apertamente per favorire la liquidazione degli oltre due milioni di abitanti della striscia. Nonostante l’acceso dibattito sulla crescente freddezza nei rapporti tra Trump e Netanyahu, non ci sono indizi significativi che prefigurino una qualche iniziativa americana per fermare il genocidio in atto. Anzi, la Casa Bianca ha fatto marcia indietro anche sul recente accordo con Hamas, che prevedeva l’impegno per un cessate il fuoco dopo la liberazione del soldato israeliano con passaporto americano, Edan Alexander.
Il lancio dell’operazione denominata “Carri di Gedeone” punta alla conquista e all’occupazione totale di Gaza, attraverso l’intensificazione delle attività militari e la rimozione forzata della popolazione palestinese, da costringere in campi di concentramento nella parte meridionale dell’enclave, in previsione del trasferimento in altri paesi. Questo processo, che ricorda anche nella scelta lessicale lo sterminio nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, è preceduto appunto dalla decisione totalmente inadeguata di concedere l’ingresso a Gaza di qualche aiuto umanitario da destinare a una popolazione letteralmente allo stremo.
Lo stesso primo ministro/criminale di guerra israeliano lo ha ammesso pubblicamente e senza il minimo scrupolo, affermando che le pressioni internazionali, incluse quelle americane, hanno costretto il suo regime a prendere iniziative per far credere di adoperarsi per alleviare l’emergenza umanitaria. Netanyahu ha spiegato che i “migliori amici” del regime sionista lo hanno avvertito che non sarebbe stato loro possibile sostenerlo nei suoi obiettivi se avessero continuato a vedere la popolazione palestinese morire di fame. Per questa ragione, ha concluso il premier israeliano, è stato necessario prendere provvedimenti di facciata per fare in modo di proseguire l’occupazione totale e il genocidio senza che gli alleati intervengano per fermarlo.
Israele intende in sostanza offrire una quantità minuscola di cibo, acqua e medicinali ai palestinesi di Gaza per limitare le critiche della comunità internazionale, così da preparare e implementare indisturbato la pulizia etnica della striscia. Il meccanismo studiato per la distribuzione degli aiuti è stato infatti denunciato dall’ONU e dalle ONG che operano tradizionalmente a Gaza, in quanto parte della strategia militare sionista. Il piano prevede il passaggio dei civili attraverso un processo di riconoscimento e schedatura da parte delle forze di occupazione in cambio del ricevimento di aiuti minimi. Il tutto, come già accennato, spingendo la popolazione verso punti di raccolta, prevalentemente nel sud della striscia, in vista di una futura espulsione dalla loro terra, quanto meno per coloro che resteranno in vita.
In questo quadro, nella giornata di martedì è stato dato il via libera all’ingresso a Gaza di circa 100 camion con aiuti umanitari, dopo che il giorno precedente erano stati solo alcune decine. Secondo le Nazioni Unite, per iniziare a porre rimedio alla situazione creata dall’embargo totale imposto da Israele a inizio marzo servirebbero almeno 600 mezzi al giorno. Quello che sta concedendo Tel Aviv, secondo il sottosegretario-generale ONU per gli affari umanitari Tom Fletcher, è “una goccia nell’oceano”. Il materiale in ingresso è dunque insufficiente, tanto che lo stesso Fletcher ha avvertito che 14 mila bambini sono a rischio di morte per denutrizione già nelle prossime 48 ore.
Per quanto riguarda le posizioni di USA e Israele sul genocidio, Trump e il suo entourage hanno rotto gli indugi nei giorni scorsi smentendo coloro che si aspettavano dichiarazioni o iniziative per favorire almeno un rallentamento della strage. Il presidente americano, anche se non ha ritenuto di aggiungere Israele alle tappe del suo recente tour mediorientale, ha in larga misura elogiato e ribadito il suo sostegno a Netanyahu, mentre l’inviato speciale della Casa Bianca, Steve Witkoff, ha di fatto ammesso che il suo governo intende lasciare mano libera al regime sionista.
Settimana scorsa era circolata inoltre la notizia di trattative in corso tra l’amministrazione repubblicana e le autorità di Libia e Siria per programmare la deportazione forzata verso questi paesi di oltre un milione di palestinesi di Gaza. I regimi arabi sunniti continuano a loro volta a denunciare Israele e a chiedere a Trump di fare pressioni su Netanyahu per fermare il genocidio. Nella realtà dei fatti, questi ultimi non muovono però un dito per i palestinesi e, al contrario di quanto sostengono in molti tra gli osservatori del Medio Oriente, saranno probabilmente ancora più disposti ad accettare la liquidazione degli abitanti della striscia dopo la stipula di vari accordi da centinaia di miliardi di dollari durante la recente visita di Trump.
Sul fronte diplomatico continuano così inevitabilmente a non esserci segnali incoraggianti. La stampa americana ha scritto di una nuova proposta consegnata dalla Casa Bianca a Israele e Hamas, contenente una tregua da 45 a 60 giorni in cambio della liberazione di dieci prigionieri israeliani e un numero imprecisato di palestinesi detenuti dallo stato ebraico. A differenza di altri documenti, quest’ultimo conterrebbe garanzie per impedire nuovamente a Netanyahu di rompere l’accordo unilateralmente e senza motivo. Non ci sono ad ogni modo elementi per credere nella serietà della bozza americana e, quindi, che l’intesa possa andare in porto. Infatti, fonti diplomatiche hanno rivelato che il premier/criminale di guerra avrebbe già posto “numerose condizioni” extra.
Il primo ministro del Qatar, uno dei paesi mediatori, ha confermato martedì che non ci sono passi avanti nei negoziati. Lo stesso Netanyahu ha minacciato di ritirare la delegazione israeliana da Doha se non dovessero esserci progressi, ovvero se Hamas non deciderà di arrendersi, consegnare le armi e mandare in esilio i propri leader. Uno scenario, quest’ultimo, che metterebbe la parola fine alla resistenza, facilitando la cancellazione della presenza dei palestinesi dalle loro terre. Il movimento di liberazione palestinese resta disponibile a consegnare tutti i prigionieri israeliani in cambio di un accordo di pace di lungo termine che preveda l’evacuazione delle forze di occupazione da Gaza. Netanyahu non ha tuttavia più nessun interesse per gli “ostaggi” e, in assenza di reali pressioni da Washington, tira diritto verso la soluzione finale nella striscia.
Con l’intensificarsi dell’offensiva sionista, qualche governo occidentale ha ritenuto necessario in questi giorni alzare la voce nei confronti di Tel Aviv. Il governo francese ha ad esempio anticipato una possibile “revisione” dei rapporti tra Europa e Israele alla luce della nuova operazione a Gaza. Parigi, assieme ai governi di Regno Unito e Canada, ha poi fatto sapere di valutare sanzioni contro Israele se non dovessero cessare l’aggressione nella striscia e l’allargamento degli insediamenti in Cisgiordania. Londra ha da parte sua sospeso martedì le trattative attorno a un accordo di libero scambio con Israele e il ministro degli Esteri, David Lammy, ha convocato l’ambasciatore dello stato ebraico in Gran Bretagna.
Queste prese di posizione sono in larga misura a uso e consumo dell’opinione pubblica che, a differenza dei rispettivi governi, assiste con orrore crescente alle mostruosità di Israele. Praticamente nulla si sta facendo invece per colpire Israele sul fronte economico o della vendita di armi. La situazione a Gaza è al di là del drammatico da moltissimo tempo e le minacce di questi giorni sono a dir poco tardive, oltre che sterili. In gran parte, le critiche nei confronti del regime di Netanyahu si accompagnano oltretutto al riconoscimento del presunto diritto all’autodifesa di Israele e alla condanna dei “terroristi” di Hamas.
In realtà, non esiste una sola giustificazione per il comportamento israeliano. In quanto entità occupante, lo stato ebraico non ha nessun diritto all’autodifesa, così come sono oggettivamente crimini di guerra il trasferimento forzato della popolazione di un territorio occupato, la privazione di cibo, acqua, medicinali, elettricità e altri beni primari, l’annessione di territori occupati, la distruzione deliberata di infrastrutture civili e umanitarie e l’assassinio di massa di civili, inclusi, anzi soprattutto, donne e bambini.
Politici, governi e commentatori che continuano a giustificare più o meno esplicitamente questi crimini indicibili sono a tutti gli effetti complici del genocidio palestinese, facilitato anche dalla criminalizzazione delle proteste contro il regime di Netanyahu dietro la finta accusa di “antisemitismo”. Il loro comportamento testimonia non solo della perdita di qualsiasi legittimità di Israele, ma anche della vera natura delle “democrazie” occidentali che, nel migliore dei casi dietro a timide denunce, giustificano, facilitano e, talvolta, celebrano apertamente lo sterminio in diretta di un intero popolo.