Israele aggredisce l’Iran che risponde com’è giusto, prima che ovvio. Dall’Occidente bianco e suprematista a coloritura neocoloniale, si dice che l’Iran non deve arrivare a possedere l’atomica, ma non è chiaro quale dottrina giuridica stabilisca chi ha diritto di dotarsi di impianti nucleari civili e militari e chi, invece, questo diritto non ce l’ha. L’Iran non possiede l’atomica, ma aderisce al TNP (Trattato per la Non Proliferazione Nucleare). Israele di atomiche ne possiede 160, si rifiuta di aderire al TNP e non accetta ispezioni dell’AIEA che invece Teheran subisce.
E perché mai oltre che i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU, più Israele, India, Pakistan e tutti i paesi NATO possono detenere o avere accesso con la doppia chiave ai codici di lancio degli ordigni nucleari ma non possono invece i paesi che non sono partner dell’Occidente collettivo, resta una domanda senza risposta. Il risultato dell’aggressione sionista è che dopo aver stroncato l’utilità di WTO, BM, FMI e delle strutture legate alle Nazioni Unite (ridotte a uffici della Casa Bianca e di Bruxelles), ora anche il TNP diventa declinabile al passato. L’Iran avrà d’ora in avanti tutto il diritto di procedere verso il nucleare per scopi militari e chiudere a accordi, ispezioni e controlli, visto che averli non gli ha evitato di essere attaccato.
L’attacco di Israele, giustificato con i progressi degli impianti di arricchimento iraniano, è parte minore nella decisione di colpire. C’è chi sostiene che l’accordo tra Teheran e Mosca avrebbe potuto fornire ciò che manca agli scienziati iraniani per completare le fasi di costruzione, ma non è verosimile. L’accordo di partenariato strategico prevede espressamente il non coinvolgimento reciproco nella sfera militare, limitando al tema della sicurezza la cooperazione; dunque difficile ipotizzare che il Cremlino consegni atomiche agli Ayatollah.
L’attacco corrisponde invece ad una precisa strategia del governo israeliano, che fin ha aspettato l’arrivo di Trump per colpire Teheran, retrovia militare e politico dell’asse della Resistenza al sionismo e ostacolo principale per l’espansione dell’influenza di Israele sull’intero Golfo Persico. Netanyahu ha scelto ora di colpire l’Iran perché gode di un consenso altissimo in patria e dispone di un sostanziale via libera dell’Occidente. Tel Aviv vede nell’ignavia e nell’ipocrisia internazionale il segno di una rassegnazione generale di un mondo che si indigna, forse, ma che si limita a protestare verbalmente e flebilmente mentre prende atto del genocidio palestinese e dello strapotere coloniale del regime sionista.
Un siffatto quadro di consenso e di sostegno interno e internazionale non si era mai dato da dopo la guerra del Kippur e Netanyahu sa bene che Israele, invisa all’opinione pubblica internazionale ma potentissima agli occhi dei governi, è in una condizione di cui si deve approfittare. Del resto è stata abilmente costruita con la finta sorpresa del 7 ottobre replicando su scala mediorientale quanto già intrapreso dagli USA dopo l’11 Settembre. Favorire o quanto meno lasciar fare, per poi utilizzare un attacco ottenendo così un consenso vasto alla reazione, che sarà sempre enormemente sproporzionata, per ampiezza e volume e che celerà sotto la vendetta un piano preciso di espansione.
L’attacco israeliano rivolge un monito anche alle monarchie del Golfo, che con il genocidio dei palestinesi hanno sospeso indefinitamente la stipula degli Accordi di Abramo, con i quali Israele si garantiva un’alleanza ed una rete di sviluppi commerciali necessari alla sua crescita economica e territoriale, quindi alla sua influenza politico-militare in un tratto di mondo decisivo per le politiche energetiche dell’intero pianeta. Il sogno di un maggiore ricatto al mondo intero eccita Israele da sempre. Le monarchie però rischiano di essere coinvolte in negativo dall’attacco israeliano, che è arrivato a colpire gli impianti di raffineria iraniani.
Il rischio è che Teheran risponda chiudendo l’accesso allo Stretto di Hormutz, dove transita il 25% del petrolio mondiale. Lo stretto è l’unico punto di uscita marittimo per le esportazioni di petrolio di Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar (anche per il gas naturale liquefatto - LNG). Largo solo tre km per ogni senso di marcia, bloccarlo sarebbe semplice per Teheran. Se succedesse, il greggio arriverebbe almeno a 150 Dollari al barile ma sauditi e soci dovrebbero ridurre fortemente la produzione per l’impossibilità di farlo transitare verso Occidente. Le conseguenze sull’economia globale e occidentale in particolar modo sarebbero pesantissime.
C’è poi un aspetto militare della vicenda che non va sottodimensionato. Israele non è inattaccabile e anzi, la sua demografia che vede nove milioni di persone concentrate in uno stato di minuscole dimensioni, lo rende estremamente a rischio in caso di attacco. Pochi missili possono arrecare potenzialmente perdite di vite umane molto alte data appunto la forte concentrazione demografica in uno spazio limitato.
Ebbene, seppure aiutata da USA, Francia, Gb e Germania, che hanno intercettato i missili e i droni iraniani che transitavano sui cieli della Giordania diretti su Israele, la presunta imperforabilità di Tel Aviv grazie ai suoi 5 sistemi di difesa aerea - David’s sling, Arrow2, Arrow3, Laser, Iron Beam, ma soprattutto Iron Drome, l’ombrello di protezione missilistico che dovrebbe tenere Israele al sicuro da qualunque attacco - si è rivelata un racconto propagandistico simile a quello sui Leopard tedeschi e sugli Atamcs statunitensi in Ucraina. Teoricamente imbattibili, sul campo hanno dimostrato di non esserlo. Il che, sul piano delle capacità militari occidentali, strumento principale della loro politica estera, apre un grosso interrogativo.
In ultimo non si può non registrare la fine del ruolo degli Stati Uniti come elemento regolatore dei conflitti e autorità politica decisiva per il loro svolgersi o meno. Oggi la Casa Bianca non convince più nessun alleato a seguire le sue indicazioni, come hanno dimostrato Ucraina prima e Israele adesso. La sua minaccia verso chi non rispetta i suoi voleri è diventata una parte delle schermaglie verbali di cui si alimenta il circo mediatico, più che prova di autorevolezza politica e forza militare.
Il presidente Trump è ormai in un vicolo cieco, dopo aver garantito di piegare la Cina con i dazi (e si sono piegati gli USA) di chiudere la guerra in Ucraina in 24 ore (e la guerra è aumentata d’intensità), di fermare l’escalation e far trovare un accordo a Israele e Iran (e la guerra è appena iniziata), adesso alterna minacce d’intervento e offerte di mediazione a distanza di ore. Dopo l’annunciata invasione di Messico, Panama e Groenlandia alla fine l’unica invasione è stata quella di Los Angeles. Si può legittimamente incedere all’ironia vista la parte ridicola di questo pagliaccio sguaiato e volgare che dallo studio ovale blandisce e minaccia ogni mattina; ma la questione, sul piano dell’ordine internazionale, assume toni molto meno simpatici.
Il minor peso di leadership politica e militare degli USA nei confronti dell’intero Occidente, lascia un eccessivo margine di manovra per le ambizioni particolari dei singoli alleati. Trova spazio nelle smanie coloniali delle potenze di piccola e media grandezza una sorta di legittimità a procedere indipendentemente dal consenso dell’alleato di riferimento. Come se gli obiettivi del comando centralizzato USA sull’Occidente fossero venuti meno con l’uscita dei democratici dalla Casa Bianca e si fosse fatto spazio una dimensione più isolazionista e meno interessata al coinvolgimento diretto statunitense. Mentre langue la discussione sull’improponibile aumento al 5% del PIL del bilancio militare di ogni membro della NATO, i paesi proxy come Ucraina e Israele sembrano insomma ignorare le disposizioni statunitensi e Washington non sembra poter agire per obbligarli a sottostare ai suoi ordini.
Il che visto da Pechino e da Mosca, come da Teheran e da qualunque altra capitale dei paesi non allineati a quel che resta dell’Occidente Collettivo, è fautore di inquietudini crescenti. Da un lato oltre a valutare negativamente la facilità con cui Trump rompe accordi, porta anche a non fidarsi nella solidità degli stessi e, in aggiunta, si tende a ritenere in parte inutile ogni accordo con gli USA in quanto incapaci di garantirne l’applicazione da parte dei suoi alleati.
Tutto questo già ha (e sempre più avrà) dei riverberi pesanti sulla possibilità di soluzioni politico-diplomatiche alle crisi militari nell’intero pianeta, che ad oggi conta 59 guerre. La tendenza dell’Occidente Collettivo a rispondere con le guerre alla crisi di leadership economica, militare, politica ed alla capacità di essere un polo di attrazione per le economie emergenti, con l’aumento delle contraddizioni interne e delle spinte centrifughe nel blocco occidentale porta con se conseguenze dirette sull’ingovernabilità planetaria. Prende spazio l’idea che se alle crisi militari non si trova una soluzione politica, allora la soluzione delle crisi politiche si darà con la forza militare. Il che non è affatto rassicurante.