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Donald Trump ha scaricato la consueta dose di minacce, promesse ed avvertenze all’indirizzo dell’Iran e dei suoi amici. Agli ayatollah ha chiesto una “resa incondizionata”, nemmeno fosse immerso in un film di cappa e spade. Ovviamente da Teheran rifiutano l’inginocchiatoio del suprematismo occidentale e fanno presente come il tentativo di regime-change in corso non sarà né indolore né vittorioso.

Di ora in ora si susseguono le notizie che indicano come la guerra degli USA sia già cominciata e come il loro  coinvolgimento da indiretto stia divenendo diretto. Anche perché ciò che questi giorni di guerra stanno dimostrando è che Israele, a fronte di una invincibilità dichiarata, soffre di una perforabilità reale e, senza l’appoggio militare USA, è poca cosa. Rischia anzi una sonora sconfitta se non arrivano le bombe perforanti statunitensi, capaci di penetrare il suolo per decine di km alla ricerca dei laboratori e dei bunker difensivi iraniani. Secondo il Washington post, "Israele potrà continuare ad abbattere i missili balistici iraniani solo per altri 10 o 12 giorni, poi dovrà iniziare a razionare le munizioni. Entro circa due settimane, se l'Iran manterrà l'attuale ritmo di fuoco, lo spazio aereo israeliano sarà in balia dei missili balistici a combustibile solido iraniani, ben più grandi e distruttivi. A meno che, ovviamente, gli Stati Uniti non intervengano direttamente”.

Israele rischia perchè un conto è sparare su donne, anziani e bambini palestinesi, distruggere case, scuole, ospedali, assediare e martoriare un popolo con il preciso disegno che li vuole espulsi ed etnicamente sostituiti dai vergognosi coloni ebrei, un altro è misurarsi con un Paese dieci volte più popoloso, ben armato e che è determinato ad esercitare la sua sovranità politica e militare.

Il suo celebrato sistema difensivo, difende relativamente: colpita e distrutta la sede del Mossad, il porto di Haifa, l’unica raffineria e diversi uffici del complesso militare israeliano, con la popolazione che, come quella di Gaza, impara la paura ma che, al contrario di quella di Gaza, può almeno fuggire nei rifugi.

Non c’entra niente il nucleare, lo sanno tutti. Quello che è in gioco, persino per ammissione del criminale di guerra Netanyahu, è un regime-change a Teheran. Molteplici sarebbero i vantaggi per l’Occidente collettivo se l’operazione dovesse riuscire. Come ha candidamente ammesso Merz, neo Cancelliere tedesco, “Israele fa il gioco sporco per i nostri interessi” e del resto nessuno sano di mente ne dubitava. L’aggressione israeliana ha proprio l’obiettivo di far cadere il governo degli Ayatollah e, possibilmente, uccidere Khamenei.

Tanto a Tel Aviv come a Washington e a Bruxelles sono convinti di trovarsi di fronte ad una serie di circostanze per certi versi irripetibili per attaccare l’Iran. Teheran sta rispondendo a Israele con molta efficacia, ma oltre ad una economia sofferente per un embargo durissimo, ha subito negli ultimi anni la decapitazione di una parte importante del suo gruppo dirigente politico-militare. La penetrazione del Mossad nei suoi apparati ha fatto emergere falle nel sistema di sicurezza interno, mentre all’estero la sua capacità d’influenza politica si è ridotta sia sul piano del consenso politico (l’impossibilità di fermare il genocidio dei palestinesi) che dalle difficoltà dell’Asse della Resistenza, indebolito dai colpi subiti da Hezbollah e da Hamas. La tenacia degli Houti come quella degli iracheni e dello stesso Hezbollah non costituiscono, al momento, la minaccia che costituivano solo un anno e mezzo fa. Ciononostante, sarebbe pericoloso per Israele, sottovalutare la capacità di resistenza iraniana e ingenuo aspettarsi sommovimenti interni per favorire il golpe. Non si facciano illusioni a Tel Aviv e si preparino ad affrontare un nemico tra i peggiori che potevano trovarsi.

Non v’è dubbio che la caduta del governo iraniano sposterebbe parecchio l’asse degli equilibri internazionali. Se l’Iran cadesse verrebbe meno il suo ruolo geopolitico; sarebbe ridotto a Paese sostanzialmente insignificante nello scacchiere mediorientale, con tutto ciò che comporta di vantaggioso per Israele (fine del nemico più attrezzato e pericoloso), per le monarchie arabe (fine del principale riferimento politico e religioso per gli sciiti e via libera agli Accordi di Abramo ed all’espansione della loro influenza su tutto il Medio Oriente), per gli USA (verrebbe meno l’ipoteca iraniana sul petrolio in transito sullo Stretto di Hormutz e si troverebbero con un nemico irriducibile e importante in meno sullo scacchiere internazionale).

Con la caduta degli Ayatollah avrebbero da perdere anche Russia e Cina. La Russia perché ha una notevole coincidenza di interessi regionali e globali, che vanno dal sostegno alla Operazione Militare Speciale in Ucraina fino alla gestione dell’islamismo nelle regioni ex Unione Sovietica site in Asia Minore e gestite attraverso la comune presenza e orientamento in seno allo SCO (Shangai Cooperation Organization). Proprio lo SCO, gioiellino strategico di Mosca nell’area euroasiatica, verrebbe incrinato da un cambio di governo in Iran. L’alleanza tra i due paesi è strategica, non a caso solo pochi mesi orsono, a seguito dell’ingresso dell’Iran nei BRICS, tra Russia e Iran è stato firmato un accordo di partenariato strategico reciprocamente molto importante.

Che Mosca decida di intervenire militarmente a difesa dell’Iran appare difficile, anche perché la campagna in Ucraina, il radicamento in Africa e il rafforzamento della posizione in Libia non lascia grandi margini per un ulteriore intervento. Ma non si può escludere un diverso agire del Cremlino, un appoggio indiretto o diretto sul modello di quello NATO all’Ucraina, per esempio. Anche fornire a Teheran il sistema S-400 sarebbe già un importante contributo alla difesa del paese persiano. Lo scontro è balistico e Mosca, su questo, non ha rivali, pur se la cosa porrebbe il mondo intero sull’orlo del conflitto nucleare.

Dal canto suo la Cina, che di guerre non ne ha mai fatte dopo la liberazione nel ’45 dall’occupazione giapponese, ha scelto la pace e il progresso scientifico quale motori della sua crescita e privilegia uno scenario di politica e affari, di sviluppo e intese e non di scontro militare. Pechino ha in Teheran un importante interlocutore politico e un primario fornitore di energia, petrolio e gas, necessari al mantenimento del gigante asiatico. L’Iran, inoltre, è una parte importante del percorso della Nuova Via della Seta ed il rispetto reciproco si è rivelato nella mediazione politico-diplomatica che la Cina ha condotto e che ha portato alla ripresa dei rapporti diplomatici tra Iran e Arabia Saudita.

Xi è cosciente di essere la tappa finale della folle corsa dell’Occidente Collettivo che punta a stroncare la leadership globale cinese sull’economia, sui commerci, sulla produzione industriale, nel convincimento che potrà sopravvivere solo con la distruzione dei suoi nemici e vigila con occhi attenti. Pechino interverrà con la notevole forza militare di cui dispone solo in chiave squisitamente difensiva, quando avrà la certezza che ogni mediazione si è esaurita e che gli attacchi hanno come fine ultimo la Cina.

I soliti bene informati sostengono che Mosca e Pechino non aiuteranno militarmente Teheran e che il Cremlino, in cambio, avrà il via libera in Ucraina con il progressivo ritiro degli USA dallo scenario. Ma ammesso che Putin sia così cinico e calcolatore, chi dice che si fidi delle promesse di un uomo che cambia idea su tutto tutti i giorni e per diverse volte al giorno? Per Mosca un governo amico in Iran è strategicamente importante sul piano della sicurezza e della politica commerciale, almeno tanto quanto la Turchia.

Russia e Cina hanno chiaro che l’obiettivo finale sarebbe la distruzione politica dell’Iran e che potrebbe rivelarsi un elemento di crisi per i BRICS. L’alleanza guidata dai 5 paesi, ai quali si sono aggiunti decine di altri ed altrettanti stanno per farlo (ultimo il Vietnam, tre giorni fa) e che è arrivata a disputare la supremazia economica e politica all’Occidente, non è ancora un’alleanza politico-militare, non ha ancora le caratteristiche di un polo alternativo all’impero unipolare. Colpirla ora con la fine dell’Iran e la successiva, probabile uscita dell’Arabia Saudita, riconquistata dal trumpismo degli USA riconvertiti al fossile, rappresenterebbe un colpo per i paesi che si battono per l’affermarsi del multipolarismo nella governance globale. E del resto, di quale governance si dovrebbe parlare se le aggressioni militari di uno stato criminale e segregazionista non vengono impedite?

Più congruo parlare di scontro aperto per la conquista di risorse, di mercati (e quindi di territori) da parete della NATO, che sancisce il bisogno disperato dell’Occidente di ricorrere anche alle guerre più potenzialmente pericolose, se necessarie a salvaguardare il suo dominio. Il passaggio all’azione armata sostituisce e archivia l’utilizzo della diplomazia nelle relazioni internazionali e propone il definitivo abbattimento del Diritto Internazionale. Insieme al venir meno del peso dell’opinione pubblica e dei meccanismi di ascolto e di reciproco riconoscimento su un piano di formale uguaglianza, sui quali l’ordine internazionale si è retto dal dopoguerra ad oggi, forma l’orrendo scenario di questo feudalesimo atomico nel quale fuorilegge è solo la ragione.