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Diversamente da quanto annunciato circa i tempi della sua decisione, Trump ha fatto sferrare un attacco aereo ai siti iraniani di Fordow e di Natantz, dove erano situati i laboratori per l’arricchimento dell’uranio, regolarmente ispezionati dalla Aiea e considerati dalla stessa intelligence USA “non in grado di porre una minaccia a medio termine”. I bombardieri B2, decollati dalla base di Diego Garcia e provenienti dalla loro base in Missouri, hanno sganciato 12 bombe GBU-57, capaci di penetrare il sottosuolo fino a 100 metri. Azione inutile ai fini militari, giacché da diversi giorni Fordow, Natantz e altri siti erano stati evacuati, e non a caso l’AIEA ha registrato assenza di radiazioni a seguito del bombardamento USA.

L’azione era preparata come da prammatica standard di tutte le forze armate di ogni paese, che disegnano diversi progetti sui diversi scenari. Ma la richiesta di aprire le trattative (che l’Iran non aveva mai chiuso) e il tempo di 15 giorni alla diplomazia per evitare l’escalation (come firmato dal documento conclusivo del G7 che parlava appunto di de-escalation) si sono rivelate degli inganni.

L’azione di Trump esprime una concezione neo-imperiale delle relazioni internazionali e, insieme, l’assenza di quel minimo di dignità e onore che si richiede agli uomini che governano i destini del proprio paese e del mondo intero. Sono state diffuse immagini di uno staff presidenziale sito nella situation room che raffigurano un clan di invasati, eccitati come ragazzini problematici di fronte a un video gioco di guerra; a queste immagini hanno fatto seguito parole scomposte da parte di un presidente che, ignorando qualunque regola di understatement e di profilo istituzionale, ha mostrato una eccitazione scomposta.

C’è da attendersi, credibilmente, una reazione iraniana modulata su diversi livelli. Dall’intensificazione massiccia del lancio di missili sulle città israeliane all’attacco alle basi statunitensi nell’area, dalle azioni che Houti in Yemen e le organizzazioni armate sciite in Iraq, così come la stessa Hezbollah dal Libano saranno in grado di effettuare, fino al blocco dello stretto di Hormutz, che obbligherebbe il petrolio che vi transita (circa il 25% del totale) a transitare dal Capo di Buona Speranza, con un aggravio di costi e una dilatazione dei tempi che inciderebbe pesantemente sul prezzo. Le conseguenze si ripercuoterebbe sulle utenze finali aumentando costi e inflazione e i mercati ne risentirebbero soprattutto per l’aumento dei costi dei prodotti assicurativi su titoli, azioni e obbligazioni che agiscono come stakeholder dei paesi produttori. Un blocco dello Stretto di Hormuz rappresenterebbe una mossa estrema, con effetti globale-disruptive, notevoli impatti economici e, quindi, l’innesco di una ulteriore e più ampia crisi militare internazionale in risposta alla crisi energetica.

Uno dei danni maggiori delle bombe USA è che seppelliscono per sempre il TNP. L’Iran forse ritirerà la sua firma dal Trattato e ogni paese di piccola-media taglia sa ora che l’unico modo per difendersi non viene dalla firma di accordi internazionali ma dal dotarsi di un armamento bellico di tipo nucleare, unica condizione che garantisce la propria incolumità ed il rispetto da parte di tutti gli attori internazionali.

La facilità con cui Trump afferma e nega ogni cosa nello spazio di giorni, se non di ore, rende la relazione con gli USA una specie di giostra su cui nessuno vuole salire. Nemmeno il Battello Ebbro di Rimbaud era così privo di rotta. Nessun Paese e nessun presidente si fiderà più di un accordo con Trump e questo getta una ulteriore ipoteca negativa sulla credibilità degli Stati Uniti come garanti di un sistema di regole internazionale.

Quel poco che rimaneva di rispetto delle regole, primato del diritto, governance multilaterale delle crisi, è definitivamente imploso. La crisi del comando unipolare ci proietta in un ordine internazionale basato sulla legge del più forte e sull’arbitrarietà estrema. Vengono meno gli standard rispetto alle norme e dei trattati in cui le regole che valgono per alcuni non valgono per altri. Un Diritto Internazionale a geometrie variabili che rispondono all’unico teorema che l’Occidente sembra conoscere: il pianeta è il suo magazzino di risorse e gli Stati Uniti sono il magazziniere capo.

Tutti sanno come il livello di indebitamento stellare raggiunto dagli USA non gli consenta una guerra nemmeno a due passi da casa. E tutti riflettono su come la Casa Bianca possa pensare di armare ucraini e israeliani ed entrare direttamente in guerra. La condizione degli USA non consente tenere aperti due fronti di guerra e l’aver stabilito la legittimità di Israele nel colpire preventivamente un nemico, pur senza avere nessuna prova che stia per essere colpita, rischia di trovare emuli ovunque, a Taiwan magari.

Al centro delle riflessioni delle cancellerie internazionali c’è poi l’inversione definitiva del paradigma che vuole Israele la longa manus degli Stati Uniti in Medio Oriente. La dinamica intervenuta da dopo Obama tra Washington e Tel Aviv indica in Israele il comando politico dell’alleanza. L'influenza pesantrissima del sistema finanziario e mediatico, con intrecci profondissimi in quello politico, denota una dipendenza di Washington da Tel Aviv e non il contrario. Nella più moderata delle ipotesi trattasi di matrimonio d'interessi.

Essere caduto nella trappola che gli ha teso Netanyahu ricorda a tutti l’imperizia di Trump e preoccupa, dentro e fuori gli USA, il coinvolgimento indiretto dei suoi alleati in una nuova guerra priva di ragioni dal punto di vista giuridico e politico. Basta leggere le parole del Ministro della Difesa italiano Crosetto, che definisce la NATO una “organizzazione da superare, anacronistica e inutilmente costosa” e che parla apertamente di un nuovo sistema di difesa integrata dei paesi occidentali, per capire che Trump spinge l’Europa - come pure Canada, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud - a cercare un nuovo assetto politico che porti a sintesi una nuova alleanza anche indipendente dagli USA. Sarà questo, forse, il nuovo terreno di raccordo per la difesa del blocco occidentale.

 

L'obiettivo non sono è l'uranio

La minaccia iraniana addotta è falsa. L’Iran non possedeva e non aveva intenzione di possedere armi nucleari in ossequio alla Fatwa emessa dall’Ayatollah Khomeini. L’arricchimento dell’uranio aveva scopi civili, nella ricerca di energia alternativa al fossile in vista di una diversificazione delle fonti energetiche e in coerenza con quanto fanno tutti i paesi del mondo dotati di lucidità politica e capacità di programmazione.

L’attacco militare statunitense è una nuova battaglia di una guerra cominciata in Siria, Yemen, Libia, Gaza, Libano e che prosegue ora in Iran. E’ una guerra per il controllo delle risorse energetiche, certo, ma non solo. Si vuole rendere Israele padrone assoluto del Medio Oriente azzerando la dimensione statuale delle nazioni arabe, che verrebbero ridotte ad un enclave cultural-religioso in una continua balcanizzazione dell’area, una concentrazione demografica priva di entità statuali, di peso economico e incidenza militare, in assenza totale di autorevolezza politica.

L’idea è di relegare ai margini coloro che non firmeranno gli Accordi di Abramo, che sono il suggello politico dell’espansione coloniale israeliana su tutto il Medio Oriente e il Golfo Persico, assicurando così a Tel Avic e ai suoi alleati occidentali il controllo sulla maggiore fonte energetica del pianeta e sulle rotte più importanti per la navigazione.

Oggi si attacca l’Iran per mettere in difficoltà Russia e Cina, che con l’Iran hanno un’alleanza strategica. Per Mosca. l’Iran è un importante sostegno politico e di sicurezza anche nell’abito SCO (Organizzazione per la Cooperazione di Shangai). Per Pechino, Teheran è un crocevia fondamentale per lo sviluppo della Belt and Road Initiative ed un importante fornitore di energia. Inoltre, colpire l’Iran significa impedire che si rafforzi il dialogo ricominciato con l’Arabia Saudita e che, insieme alla Turchia, si vada concretizzando la suggestione di un blocco regionale che tenga Israele ai margini della regione.

Ma la guerra è soprattutto contro i BRICS, che insieme all’uscita malconcia dall’Africa rappresentano il peggiore degli incubi per l’egemonia mondiale dell’Occidente Collettivo. I BRICS sono un insieme di paesi che hanno scelto di salvaguardare il proprio sviluppo attraverso la creazione di un blocco economico e commerciale che agevoli scambi e cooperazione e renda inutili sanzioni e minacce statunitensi ed europee, che hanno il loro scopo principale nella compressione della crescita delle economia emergenti a vantaggio del predominio imperiale sui mercati. Il loro processo di crescita che pone sul tavolo la necessità urgente di una nuova governance internazionale basata sulla multipolarità, è visto come minaccia esiziale dagli Stati Uniti.

Più in prospettiva si muove guerra per intimorire i paesi BRICS dal compiere un salto di livello e indirizzarsi verso un blocco non solo economico e commerciale ma anche politico e militare, con il quale le richieste di un assetto multipolare acquisirebbero peso decisivo e vedrebbero un confronto diretto con l’impero in decadenza.

I contraccolpi di politica interna per Trump saranno pesanti se l’Iran darà vita ad una vera e propria guerra in Medio Oriente. La destra che lo ha voluto alla Casa Bianca è spaccata in due e la sua promessa di non portare più gli USA in guerra ma anzi di uscire subito da quelle in cui si trovava si è dimostrata una truffa. Che le elezioni del prossimo anno ratifichino come nessuno sia più disposto a dare credito a Trump, è però magra consolazione per un pianeta che dorme, pur essendo vicino ad una terza e forse ultima guerra mondiale, come mai così tanto lo è stato negli ultimi 80 anni.