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Per la prima volta dal ritorno al potere nell’agosto del 2021, il regime dei Talebani in Afghanistan ha ottenuto qualche giorno fa il riconoscimento ufficiale della propria legittimità da parte di un paese, anzi di una potenza globale come la Russia. La decisione di Mosca era nell’aria da qualche tempo e rappresenta non solo una presa d’atto della realtà oggettiva di chi governa a Kabul, ma anche una scelta diplomatica e strategica attentamente studiata. Secondo il Cremlino è ormai più utile e proficuo coinvolgere e responsabilizzare il governo talebano piuttosto che tenerlo ai margini della comunità internazionale o, tutt’al più, limitarsi a intrattenere con esso relazioni informali, come continuano a fare molti paesi anche occidentali.

La strada verso il riconoscimento da parte di Mosca era stata spianata dalla sentenza della Corte Suprema russa dello scorso aprile che, dopo oltre due decenni, ha revocato lo status di organizzazione terroristica dei Talebani. Questo atto formale era necessario per sbloccare le decisioni politiche con ogni probabilità già prese dalle autorità di governo. Il primo luglio, così, l’ambasciatore dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan a Mosca ha presentato le proprie credenziali al ministero degli Esteri russo. Due giorni dopo, la Russia ha ufficialmente riconosciuto quello dei Talebani come il legittimo governo a Kabul.

L’importanza della decisione della Russia risiede in primo luogo nel peso che questo paese ha a livello internazionale. Questo fattore servirà probabilmente da stimolo ad altri paesi, soprattutto asiatici, a muoversi nella stessa direzione, aprendo il regime dei Talebani alle opportunità che da ciò inevitabilmente derivano. Marginalizzazione ed esclusione sono stati da sempre i caratteri che più hanno definito i Talebani, il cui primo governo – dal 1996 al 2001 – era riconosciuto formalmente solo da Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Vista anche la complicata storia russo-sovietica in Afghanistan, la mossa di Mosca testimonia di una realtà totalmente cambiata e resa possibile soprattutto dalle dinamiche multipolari in fase di avanzamento che stanno cambiando gli equilibri strategici consolidati in tutto il mondo e, in particolare, nell’area euro-asiatica.

La Russia era uno dei pochi paesi che dopo la fine dell’occupazione americana aveva tenuto aperta la propria rappresentanza diplomatica a Kabul. Tra le altre, erano rimaste operative anche le missioni di Cina, Iran, Pakistan, Qatar, Turchia, Emirati e delle repubbliche centro-asiatiche ex sovietiche. Altri ancora, inclusi gli Stati Uniti, avevano continuato a intrattenere un dialogo con i Talebani tramite le loro ambasciate in Qatar o in Pakistan. A dicembre 2023, la Cina aveva invece per prima accettato l’ambasciatore di fatto dei Talebani sul proprio territorio, sia pure senza garantire il riconoscimento diplomatico ufficiale al regime.

Dal 2021, inoltre, i Talebani hanno a poco a poco fatto breccia in varie organizzazioni sovranazionali, prendendo parte ad esempio a riunioni ONU, UE o del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). In Occidente prevalgono per lo più a livello ufficiale le condanne per le gravi carenze democratiche che caratterizzano l’Afghanistan sotto il controllo talebano, assieme all’accusa di non fare abbastanza per limitare le attività dei gruppi terroristici che operano tuttora in questo paese. Dietro le quinte ci sono comunque manovre per rafforzare la cooperazione con i Talebani, sotto la spinta principalmente di due considerazioni: l’importanza dell’Afghanistan per le rotte commerciali che collegano l’Asia all’Europa e l’Asia centro-settentrionale all’Oceano Indiano e le risorse del sottosuolo di questo paese, in larga misura ancora tutte da sfruttare.

Il riconoscimento formale assicura quindi alla Russia una posizione di vantaggio in questi ambiti, anche se altri elementi vanno inclusi nei calcoli del Cremlino. Uno di questi è quello della sicurezza. L’area centro-asiatica, e lo stesso Afghanistan, rappresentano una sorta di ventre molle della minaccia fondamentalista che grava sulla Russia, come ha confermato per l’ennesima volta l’attentato del marzo 2024 al Crocus City Hall di Mosca. Una minaccia oltretutto intrecciata allo scontro con l’Occidente, dove molti governi intrattengono rapporti a dir poco ambigui con le organizzazioni terroristiche di matrice islamista. La creazione di relazioni formali con Kabul suggella quindi una politica di collaborazione nell’ambito della sicurezza e della lotta al terrorismo, fungendo anche da incentivo per i Talebani e da elemento di responsabilizzazione per il loro governo.

È chiaro in ogni caso che gli aspetti economici occupano un posto importante nei calcoli di Putin. Le compagnie russe avranno innanzitutto condizioni legali più certe per entrare sul mercato afghano. Com’è ovvio sono i progetti estrattivi che attireranno le maggiori attenzioni. L’Afghanistan dispone di ricchezze del sottosuolo consistenti e non ancora sfruttate, dal litio alle terre rare, dal gas al petrolio. Anche altri settori potrebbero ricevere un impulso importante, con gli scambi commerciali in grado di moltiplicare quelli già in essere, come le esportazioni di prodotti agricoli dall’Afghanistan alla Russia.

L’Afghanistan occupa poi un’area geografica che costituisce un vero e proprio ponte tra l’Asia centrale e quella meridionale, permettendo alla Russia, ma anche alla Cina e alle repubbliche centro-asiatiche ex sovietiche di raggiungere il Pakistan, l’India e l’Oceano Indiano. Rotte e corridoi commerciali sono d’altra parte sempre più al centro dei progetti di sviluppo soprattutto per quanto riguarda il Sud Globale, a cominciare da quelli riconducibili alla “Belt and Road Initiative” cinese. E la Russia, già parte integrante di questi piani, si ritroverà con un chiaro vantaggio se l’Afghanistan dovesse essere coinvolto a tutti gli effetti.

Su un piano più generale, Mosca punta a stabilizzare la regione centro-asiatica per ragioni commerciali e di sicurezza, così che il ristabilimento di relazioni formali con Kabul darà alla Russia un ruolo ancora più autorevole nel mediare la risoluzione di conflitti e tensioni tra l’Afghanistan e alcuni suoi vicini, come il Tagikistan o il Turkmenistan. Il tutto mentre le potenze occidentali, segnate dal complesso della sconfitta seguita all’occupazione ventennale, restano a guardare e considerano il paese tornato sotto il controllo dei Talebani ancora come un paria da emarginare o, in prospettiva futura, da sfruttare per il predominio sulla regione a discapito dei propri rivali strategici.

Gli eventi degli ultimi quattro anni e la decisione di settimana scorsa del Cremlino rappresentano in ogni caso solo i primi passi verso la riabilitazione del regime dei Talebani e la costruzione di una nuova architettura economica, strategica e della sicurezza in Asia centrale. Molte restano naturalmente le incognite. Prima fra tutte una situazione interna all’Afghanistan ancora precaria a causa dei conflitti latenti tra il governo centrale e i gruppi armati che a esso si oppongono, spesso con l’appoggio di forze esterne.

Queste tensioni minacciano seriamente progetti e investimenti esteri cruciali per lo sviluppo e la stabilità del martoriato paese. Una situazione resa inoltre incerta anche dalle possibili ripercussioni di guerre vere e proprie esplose o riesplose di recente ai confini dell’Afghanistan, come quella tra India e Pakistan o tra Iran e Israele. La posizione di vantaggio della Russia, infine, potrebbe spingere gli Stati Uniti e i loro alleati in Occidente e in Asia a ostacolare il rilancio dell’Afghanistan e ad alimentare ulteriormente crisi e conflitti.

Solo il coinvolgimento del nuovo regime nelle dinamiche di crescita globale, e non la sua emarginazione, potrà però favorire la stabilità e, di riflesso, avviare un percorso che possa portare benefici a tutta la società afgana, nonostante le questioni critiche legate a temi come democrazia e diritti delle donne, così come a una regione da sempre al centro delle trame delle potenze mondiali.