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Nel teatro della geopolitica contemporanea, poche scene si preannunciano così cariche di significato quanto l’incontro che dovrebbe avvenire tra il primo ministro indiano, Narendra Modi, e il presidente cinese, Xi Jinping, a margine del vertice SCO in programma a Tianjin a partire da domenica prossima. Due leader che per anni si sono guardati in cagnesco oltre l’Himalaya, improvvisamente impegnati a tessere i fili di una riconciliazione che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile. Ma il vero protagonista di questa svolta non sarà presente all’evento: Donald Trump, l’uomo che con la sua politica del bastone senza carota sta regalando alla Cina quello che Pechino non era mai riuscita a ottenere con decenni di paziente diplomazia.

La storia di Washington che rischia di buttare alle ortiche vent’anni di investimenti strategici nell’alleanza con l’India è una lezione magistrale su come l’arroganza imperiale possa trasformarsi nel miglior alleato dei propri nemici. E soprattutto, è la cronaca di un suicidio annunciato: quello del sogno americano di mantenere l’egemonia globale trattando i partner come vassalli.

Facciamo un passo indietro. Dall’amministrazione Bush jr in poi, l’establishment di Washington aveva individuato nell’India il pilastro della propria strategia di contenimento della Cina. Non un’alleanza qualunque, ma il fulcro di un disegno geopolitico che doveva ridisegnare gli equilibri asiatici. Il “Quad” con Australia e Giappone, i vari accordi di difesa, la condivisione tecnologica nucleare: tutto puntava a fare di Nuova Delhi il principale contrappeso “democratico” a Pechino nella regione più dinamica del pianeta.

Poi è arrivato il secondo mandato di Trump con la sua diplomazia da mercante fallito e in sei mesi il suo governo è sul punto di mandare in frantumi quello che tre amministrazioni avevano pazientemente costruito. Il pretesto? Il petrolio russo. Washington ha imposto dazi del 50% alle importazioni indiane perché Nuova Delhi, paese sovrano e non protettorato americano, aveva osato mantenere rapporti commerciali con Mosca. Come se la stessa Europa non continuasse a importare gas russo per vie traverse e non solo.

Ma il punto non è l’ipocrisia, ormai merce comune nella diplomazia statunitense. Il punto è la stupidità strategica. Trump ha deciso di umiliare pubblicamente l’India – un paese di 1,4 miliardi di abitanti con armi nucleari e ambizioni globali – per costringerla a seguire i diktat di Washington sulla questione ucraina. Il risultato era prevedibile: l’India ha tirato fuori dal cassetto la propria “autonomia strategica”, quel concetto che l’occidente celebrava quando significava non allinearsi totalmente alla Cina, ma che improvvisamente è diventato inaccettabile quando ha iniziato a valere anche nei confronti degli Stati Uniti.

Ed è qui che la storia diventa interessante dal punto di vista dell’analisi geopolitica. Perché la reazione di Modi non è stata quella di un leader del Sud Globale qualunque, stizzito per l’ennesima prepotenza occidentale. È stata la mossa di uno stratega che ha visto nell’errore americano un’opportunità storica per riposizionare l’India sullo scacchiere mondiale. Nel giro di poche settimane, Nuova Delhi ha così rispolverato canali diplomatici con Pechino che erano praticamente morti dopo il conflitto nella valle del Galwan del 2020. Wang Yi, il ministro degli Esteri cinese e uno dei diplomatici più navigati al mondo, è volato settimana scorsa nella capitale indiana per quello che è stato molto più di un semplice incontro bilaterale. È stato un segnale: due civiltà millenarie che decidono di parlarsi sopra la testa dell’impero in declino.

Gli accordi raggiunti sono significativi non tanto per il loro contenuto tecnico – ripresa dei voli diretti, facilitazioni commerciali, cooperazione sui confini – quanto per il messaggio politico. Modi ha cioè dimostrato a Washington che l’India dispone di alternative. E Xi ha capito che la finestra di opportunità per dividere il fronte anti-cinese si era improvvisamente spalancata. Certo, le diffidenze restano enormi. Settant’anni di tensioni non si cancelleranno con una stretta di mano. Ma Trump ha fatto qualcosa che la diplomazia cinese non era mai riuscita a ottenere: ha reso meno oneroso per l’India il dialogo con la Cina. Ha alterato l’equazione strategica indiana, rendendo Washington meno affidabile come partner a lungo termine.

È in questo contesto che va letta la trasformazione dei BRICS da club economico di paesi emergenti a piattaforma politica alternativa all’ordine occidentale. Non è un caso che Trump abbia minacciato dazi aggiuntivi contro i membri del gruppo, definendolo “anti-americano”. Il problema è che quando minacci qualcuno per scoraggiarlo dal fare qualcosa, e quello continua a farla comunque, hai sostanzialmente dimostrato l’impotenza delle tue minacce.

I BRICS oggi rappresentano quasi il 60% della popolazione mondiale e oltre il 40% del PIL globale. L’adesione di paesi come Iran, Egitto, Etiopia ed Emirati ha trasformato quella che era una sigla economica in un esperimento di governance post-occidentale. Non necessariamente anti-occidentale, ma certamente post-occidentale: un sistema di regole globali che non dipenda dalle oscillazioni della politica interna americana o europea.

L’ironia è che questo processo di “de-dollarizzazione” e diversificazione delle catene del valore globali non nasce da un disegno anti-americano, ma dalla semplice necessità di ridurre i rischi. Quando Washington usa il sistema finanziario globale come un’arma, è naturale che gli altri cerchino alternative. Si tratta di economia di base, non di geopolitica rivoluzionaria.

Ma l’aspetto forse più interessante di tutta questa vicenda è il dibattito che si è scatenato in India tra i sostenitori del riavvicinamento alla Cina e quelli che continuano a vedere negli Stati Uniti l’ancora di salvezza del paese. È uno scontro che dice molto sulla psicologia delle élite post-coloniali e sulla difficoltà di liberarsi mentalmente dal rapporto con l'ex-potenza dominante. Da una parte ci sono intellettuali, ex-diplomatici e commentatori che continuano a ragionare con le categorie della Guerra Fredda, vedendo nel legame con Washington una garanzia di modernità e progresso. Dall’altra c’è una nuova generazione di analisti che ragiona in termini di multipolarismo e autonomia strategica, considerando l’alleanza americana non più come un dato di natura ma come una scelta tra le molte possibili.

Il paradosso è che proprio Trump, con la sua diplomazia volgare e transazionale, sta accelerando questo processo di emancipazione psicologica. È difficile continuare a idealizzare un partner che ti tratta come un fornitore di servizi invece che come un alleato strategico. E quando qualcuno minaccia sanzioni se non obbedisci ai suoi ordini, il rapporto smette di essere una partnership per diventare una forma di vassallaggio, come dovrebbero sapere molto bene i leader europei.

Quello a cui stiamo assistendo non è solo un riallineamento tattico, ma il sintomo di una trasformazione epocale. Il mondo unipolare nato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica sta lasciando il posto a un sistema più complesso, dove nessuna singola potenza può imporre le proprie regole agli altri senza conseguenze. Gli Stati Uniti continuano a essere la prima potenza militare ed economica globale, ma stanno perdendo qualcosa di ancora più prezioso: la capacità di definire l'agenda internazionale. Quando paesi come India e Brasile iniziano a ragionare in termini di alternative al sistema occidentale, significa che l’egemonia culturale americana sta vacillando.

Trump, con la sua politica del “America First” portata alle estreme conseguenze, sta paradossalmente accelerando questo processo. Ogni dazio imposto, ogni minaccia lanciata, ogni ricatto economico non fa che rafforzare la convinzione del Sud Globale che sia necessario diversificare i propri riferimenti geopolitici. La lezione che emerge da questa vicenda è semplice ma devastante per gli Stati Uniti: l’egemonia non si mantiene con la forza, ma con l’attrattiva. E quando smetti di essere attrattivo per i tuoi alleati, inizi a diventare un problema anche per te stesso.

Trump credeva di poter trattare l’India come un fornitore di servizi intercambiabile, dimenticando che Nuova Delhi aveva altre opzioni sul tavolo. Il risultato è che ora Xi Jinping può permettersi di sorridere mentre guarda Washington fare il suo lavoro di disgregazione del fronte occidentale in Asia.

La storia ricorderà questo periodo come il momento in cui l’America ha scelto di essere temuta piuttosto che rispettata. E come sempre accade, quando si sceglie la paura come strumento di governo, prima o poi i sudditi smettono di aver paura e iniziano ad arrabbiarsi. A quel punto, l’impero è già finito: continua a esistere per inerzia, ma ha perso la sua ragion d’essere. Modi e Xi lo hanno capito. Trump, evidentemente, no.