Stampa

Una corte d’appello americana ha confermato nei giorni scorsi l’ovvia sentenza di primo grado, emessa da uno speciale tribunale dedicato alle controversie in materia di commercio estero, sull’incostituzionalità di gran parte dei dazi imposti dal presidente Trump in questi mesi. Anche se il testo del verdetto deciso da una maggioranza di 7 giudici a 4 spiega molto chiaramente le ragioni che rendono illegali i provvedimenti emessi a raffica dall’inquilino della Casa Bianca, l’effetto resterà sospeso almeno fino al 14 ottobre per dare la possibilità all’amministrazione repubblicana di ricorrere alla Corte Suprema. I dazi trumpiani sono dunque incostituzionali, ma resteranno in vigore per i prossimi 45 giorni e, molto probabilmente, anche dopo.

A partire dal 2 aprile scorso, quando Trump lanciò solennemente il suo personale “Giorno della Liberazione”, sono state appunto annunciate tariffe doganali per quasi tutti i paesi del mondo che vendono merci negli Stati Uniti. Il presidente aveva reclamato questa autorità in base a una legge del 1977 ("International Emergency Economic Powers Act” o IEEPA) che assegna appunto al capo dell’esecutivo il potere di implementare misure in ambito economico in presenza di una “emergenza nazionale”.

Secondo il tribunale d’appello, però, nel testo della legge non c’è nessun riferimento alla parola “dazi” né a possibili sinonimi come “tasse” o “imposte” che legittimerebbero quanto fatto da Trump in questi mesi. La decisione si basa su un principio costituzionale molto semplice e difficilmente equivocabile, ovvero quello del potere unico del Congresso di imporre tasse, definizione all’interno della quale rientrano i dazi. La stessa corte spiega che ci sono in ogni caso numerose leggi che delegano questo potere al presidente, ma in tutte il riferimento ai dazi risulta esplicito. Ciò non avviene invece nel caso dell’IEEPA.

I giudici non sono entrati nel merito della legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza, ma anche in questo caso la posizione della Casa Bianca è a dir poco discutibile. Per Trump, la presunta emergenza che ha richiesto l’imposizione a tappeto di dazi sulle importazioni americane è il deficit della bilancia commerciale USA, che è tale da mezzo secolo. A questa realtà il presidente ha fatto riferimento nelle sue uscite pubbliche e sui “social” subito dopo la sentenza della corte d’appello, definita una sciagura che, se implementata, “distruggerebbe letteralmente” gli Stati Uniti.

Al di là degli aspetti legali, c’è del vero nelle parole di Trump, nel senso che l’offensiva commerciale intrapresa in questi mesi, confusione e contraddizioni a parte, punta almeno in teoria a ristabilire le fondamenta economiche degli USA, riportando in patria produzioni industriali finite all’estero in seguito all’accelerazione della finanziarizzazione dell’economia negli ultimi decenni. Una necessità vitale, secondo l’amministrazione repubblica, soprattutto in prospettiva di una futura guerra con i rivali strategici americani a livello globale, a cominciare dalla Cina. Trump intende anche usare il denaro incassato dai dazi per ridurre il colossale debito pubblico americano, anche se a pagarne il costo non sarebbero in questo caso i paesi esportatori, come sostiene il presidente, ma i consumatori americani.

Il segretario al Tesoro, Scott Bessent, e quello al Commercio, Howar Lutnick, hanno a loro volta agitato scenari da apocalisse se l’edificio dei dazi che Trump sta costruendo faticosamente dovesse crollare per l’intervento dei tribunali. Un’eventuale dietro front costituirebbe in primo luogo un “pericoloso imbarazzo diplomatico”, ha avvertito Bessent, mentre priverebbe Washington delle armi necessarie a rispondere a ritorsioni commerciali di altri paesi che potrebbero approfittare della paralisi dovuta allo stop imposto al presidente da parte della magistratura americana.

Come minimo, in attesa del probabile intervento definitivo della Corte Suprema, il verdetto d’appello alimenta ancora di più la confusione attorno alla questione dei dazi. Dopo il già ricordato “Giorno della Liberazione”, Trump aveva messo in pausa quelli annunciati per via della risposta dei mercati e le immediate possibili conseguenze economiche che avrebbero causato. Soprattutto la guerra commerciale lanciata contro Pechino ha segnato un drastico rallentamento dopo che la leadership cinese aveva prospettato contromisure dolorose per Washington. Ad agosto, i dazi sono comunque entrati finalmente in vigore in varie forme e dopo che in pochi casi erano stati sottoscritti accordi, come quello tra USA e Unione Europea.

L’altro elemento che rende esplosiva la questione è l’uso degli stessi dazi come arma strategica e diplomatica da parte di Trump, quindi, ancora una volta, non legata a una possibile “emergenza nazionale”. L’esempio dell’India è il più chiaro e recente. La Casa Bianca ha imposto a Delhi tariffe sulle merci in ingresso negli USA del 50%, con la motivazione esplicita del continuo commercio in petrolio in direzione Russia-India.

Da un lato, il ricorso ai dazi come arma diplomatico-strategica rischia di trasformarsi in un boomerang, come dimostra la fermezza del governo indiano a non piegarsi ai diktat americani e l’impegno a consolidare i legami con Mosca, nonché a normalizzare i rapporti con la Cina. Dall’altro, però, un passo indietro forzato da parte di Trump si risolverebbe in una clamorosa umiliazione a livello internazionale, che oltretutto richiederebbe la revisione di una politica estera già confusionaria e incoerente.

Se è abbastanza evidente che il presidente americano non ha l’autorità per imporre dazi a piacimento, c’è il rischio fortissimo che la recente sentenza di appello, così come è stato per quella di primo grado del cosiddetto Tribunale per il Commercio Internazionale, resti lettera morta. La Corte Suprema, viste le implicazioni, prenderà quasi sicuramente in esame il caso ed è molto probabile che ribalterà le decisioni dei tribunali inferiori. Dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, la Corte Suprema, a maggioranza conservatrice e con tre dei nove giudici nominati dall’attuale presidente durante il suo primo mandato, ha molto spesso assecondato le manovre autoritarie di quest’ultimo, senza riguardo per legge, Costituzione e precedenti.

Va anche precisato che Trump ha facoltà di ricorrere ad altre leggi di “emergenza” che gli consentono in teoria di imporre dazi sulle importazioni, anche se le situazioni di crisi che richiederebbero tali interventi sono tutt’altro che reali. Una legge del 1962 permette poi al presidente di fissare tariffe doganali non a paesi specifici ma a determinate merci, indipendentemente da dove vengono importate. Questo strumento è già stato usato da Trump per automobili, acciaio e alluminio. Nel caso dovessero esserci limitazioni legali ai dazi “reciproci” diretti contro singoli paesi, il presidente repubblicano potrebbero allargare il campo ad altri prodotti, come peraltro sembra già essere pronto a fare.

Se, perciò, la sentenza d’appello dei giorni scorsi crea momentaneamente qualche intralcio alle politiche commerciali ultra-aggressive della Casa Bianca, è altamente improbabile che la guerra dei dazi in corso possa essere fermata o rallentata dai tribunali degli Stati Uniti.